Recensione: Meanders Of Doom [EP]
Amano definire quel che suonano come Dark Metal, i Sinoath, e forse non a caso.
Confesso che dopo aver ricevuto la demo, premendo il tasto play, sono rimasto stupefatto.
Dopo il primo minuto e mezzo di intro (“In a Dungeon of Death”), iniziando con la prima, lunga canzone (che da anche il titolo all’EP) “Meanders of Doom”, mi sono trovato al cospetto di qualcosa di indefinibile; una commistione di generi che variano da un grezzo e acido Doom dalle robuste radici settantine secondo la ricetta di Black Sabbath e Pentagram, con più di una strizzata d’occhio, poi, allo stile inglese dei My Dying Bride e alle atmosfere luciferine e profondamente buie di band quali i Triptykon, il tutto contornato dalle dissonanze di un organo di sottofondo, da voci spettrali e atmosfere caustiche, dannatamente ipnotiche e “paludose”, punto di contatto questo, che mi ricorda parecchio un’altra band di genere abbastanza vicino ai Sinoath, quali i Cult of Luna di “Eternal Kingdom”.
Tutto questo l’ho percepito in nemmeno cinque minuti di ascolto. tre se si esclude l’intro.
Segno questo, per quanto mi riguarda, che i Sinoath sono riusciti a comporre un EP di assoluto spessore e qualità e che, se era stato pensato per rivelare molteplici sfaccettature della originale personalità di questi musicisti provenienti da Catania, in attività addirittura dal 1990 (attraverso diverse vicissitudini, purtroppo, che hanno portato la band a pubblicare l’ultimo disco, “Under the Ashes”, nel 2007), ha colto assolutamente nel segno e ne ribadisce l’assoluto ruolo di culto; parliamo di quei dischi, insomma, che è sempre un peccato perdere, perché la proposta data, sono certo, farebbe la felicità di qualsiasi doomster che si rispetti.
Il secondo episodio in scaletta, proseguendo, non è certo da meno rispetto alla traccia di apertura.
“Codes of Knowledge” sembra giocare su di un piano più dinamico e canonicamente settantiano con atmosfere che rimandano ad un certo prog orrorifico, classico nelle aperture centrali, supportare da un bell’assolo di chitarra su un tappeto di synth che arricchisce il già grande fascino del brano, e che riesce proprio a trascinare l’ascoltatore indietro nel tempo di quarant’anni, in un qualche fumoso e oscuro garage ad ascoltare questi ragazzi, rapiti dal loro comporre musica che, occorre ribadirlo, solo in apparenza potrebbe sembrare semplice (semplice, ovviamente, intendendo il genere Doom, che di “semplice” non ha mai avuto nulla o quasi), ma che in realtà è elegante ed oscura, che “assorbe” l’attenzione e la mantiene sempre alta, anche in composizioni, come queste, dalla durata non indifferente.
Affascinante. Fatto apposta per “divagare” se possibile.
Se questo è il preludio a quanto, spero, comporranno nel loro prossimo disco completo, non posso che essere ansioso di ascoltarlo (e spero proprio non debbano passare altri 9 anni!): i Sinoath sono sinonimo di qualità.
Francesco “Caleb” Papaleo