Recensione: Melana Chasmata

Di Francesco Gabaglio - 19 Aprile 2014 - 8:00
Melana Chasmata
Band: Triptykon
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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89

I Triptykon sono la Leggenda che cammina sulla terra. È inevitabile che, ad una loro nuova uscita discografica, il mondo del metal più oscuro rivolga con rispetto tutta la propria attenzione a Sua Maestà Tom Gabriel Warrior. Non solo a causa del fatto che i suoi Hellhammer e i suoi Celtic Frost posero, negli anni ‘80, le fondamenta del black metal; ma anche perché con i Triptykon, la sua nuova creatura nata nel 2010 dallo scioglimento dei Celtic Frost, Warrior aveva confermato di nuovo il proprio genio creativo attraverso un superbo album che continuava il discorso iniziato da Monotheist.

A più di quattro anni da Eparistera Daimones, eccoci così di fronte a Melana Chasmata (‘abissi neri’). Spegniamo le luci; accendiamo le candele e lo stereo. Play.

L’album decolla immediatamente, senza esitazioni: Tree of suffocating souls è un brano in your face che ricorda certi episodi di Eparistera Daimones: già dal primo secondo ferisce l’ascoltatore e gli sbatte in faccia un muro di aggressiva oscurità. Anche il sound resta quello che l’ascoltatore ha già imparato ad apprezzare: chitarre dalle tonalità abissali, drumming possente e quella voce che, con grande abilità e efficacia, si cimenta in cantilene, urla e parti quasi recitate. A tre quarti del brano veniamo avvolti da un breve ma affascinante inserto orientale suonato su uno strumento a corde, che si incastra efficacemente con un assolo di chitarra elettrica e che conferisce un tono esotico e mistico al brano intero.
Boleskine House esordisce in maniera forse sorprendente, con una chitarra acustica che si mescola a quella elettrica in un giro tanto ambiguo da poter preludere sia ad uno sviluppo allegro sia ad uno cupo; ma poi la batteria fa la sua comparsa, le chitarre spariscono e, come ci si aspettava, si riprecipita giù. Il brano si arricchisce notevolmente grazie alla voce di Vanja Šlajh, che si sovrappone al cantilenare di Warrior; espediente già sperimentato in passato dalla band ma che rimane anche qui validissimo e, oserei dire, da brividi. Il brano si gioca interamente sull’avvicendarsi del giro di chitarre al cantato dei due, i quali trovano anche spazio per esibirsi individualmente. Un pezzo ipnotico.
Altar of Deceit continua questo schema: introduzione di chitarra, entrata della batteria e poi del resto dell’insieme. Il brano è tipicamente triptykoniano nelle sue sonorità e nella sua struttura, e sembra infatti provenire dall’album precedente. Pur non ricorrendo a trovate particolari, il pezzo funziona benissimo: senza fronzoli, semplice ed efficace.
Si riprende il ritmo alla grande con Breathing che, dopo aver ingannato l’ascoltatore con un inizio doom, pigia sull’acceleratore ed acquisisce un piglio deciso, sostenuto dalle impressionanti martellate di batteria e, a partire dalla metà del brano, da un riff palm-muted che rimanda la memoria a certi riff di matrice thrash dei Celtic Frost. L’headbanging è assicurato fino alla fine per quella che, grazie alla sua patina marcatamente old school, emerge come la traccia più facilmente assimilabile dell’album.
Aurorae riprende invece un ritmo più riflessivo. È come se il brano ci portasse in volo sul pelo del mare di notte: c’è solo il nero sotto, sopra e dentro di noi, ma un inspiegabile senso di immensa quiete culla la nostra tristezza e addolcisce il nostro mistico volo. La batteria crea un tappeto ritmico ridotto all’osso, una chitarra e il basso danno consistenza alle onde e al loro lento muoversi, mentre un arpeggio clean ci libra in aria. Un assolo atmosferico di chitarra tendente allo shoegaze chiude in modo memorabile questo splendido e atipico pezzo, mentre ci allontaniamo verso l’orizzonte.
Se poco fa stavamo sorvolando pacificamente il mare, ora da esso emerge qualcosa di ancora più nero della notte stessa: Demon Pact è un lento rituale; un freddo stridio metallico ferisce l’aria, mentre Tom Gabriel Warrior recita parole oscure come una preghiera.
In the Sleep of Death sembra inizialmente prolungare queste atmosfere, ma stavolta la sensazione che finisce per prevalere nettamente è la disperazione. Al lamento e al grido di Warrior fanno da contrappunto le consuete chitarre trascinate, che si mescolano col sempre discreto basso. Particolarmente rilevanti i rimandi a Monotheist, che attraversano tutto il disco ma che sono evidenti soprattutto in questo brano.
Black Snow, con i suoi dodici minuti e mezzo, è la traccia più lunga dell’album e si attesta per tutta la sua durata su velocità doom; al suo interno, il ritmo non subisce quasi mai variazioni. A causa di ciò e del fatto che, a livello sonoro, non sono individuabili particolarità di rilievo, la traccia risulta indubbiamente di difficile assimilazione, anche se qualitativamente inattaccabile e in linea col resto dell’album. Un minutaggio leggermente inferiore avrebbe certamente aiutato l’ascoltatore; tuttavia la lunga durata e l’inaccessibilità del pezzo hanno un importante ruolo strutturale all’interno del disco: esso funge infatti da ultimo e più profondo inabissarsi e, se così si può dire, da ‘ultima prova’ da superare prima di giungere al finale.
Finale che è costituito dall’ottimo Waiting, brano del tutto particolare le cui redini sono affidate a Vanja Šlajh. La sua voce risuona nell’ampio spazio lasciato dall’assenza di chitarre distorte, batteria e basso. Le eteree parti atmosferiche, che ricordano My Pain del già citato Eparistera Daimones ma soprattutto gli Ulver elettronici dei primi anni Duemila, sono intercalate da un passaggio più in linea col resto del disco e da un pacifico assolo finale dall’effetto straniante; il disco si chiude così su un registro alto ma dal sound distensivo.

Melana Chasmata è un album che conferma l’immenso talento di Tom Gabriel Warrior. A livello di sound non propone quasi nulla di nuovo rispetto ai precedenti Monotheist e Eparistera Daimones, dei quali è anzi una fusione. Il disco si distingue rispetto al lavoro del 2010 principalmente per una minore aggressività data dal risalto particolare conferito alle parti doom; si tratta inoltre di un album assai omogeneo, che scorre cioè senza troppi scossoni: una sola attitudine e un solo sound tengono ancorate al resto del disco anche le tracce più eccentriche.

Il risultato è un disco non all’altezza di Monotheist, capolavoro forse irraggiungibile, ma pari o addirittura superiore a Eparistera Daimones il quale, in prospettiva, sembra essere stato scritto per poter arrivare qui, a Melana Chasmata. La band svizzera trova in questo disco la sua forma migliore e più bilanciata tra aggressività e malevolo contegno; un album dalle atmosfere cupe come non mai, eseguito con pathos religioso e, soprattutto, qualitativamente superlativo.
 

Francesco “Gabba” Gabaglio

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