Recensione: Melancholia
Melancolìa s. f. – Variante di melanconia e malinconia; è la forma più vicina a quella etimologica, ma ormai di uso ant. o prezioso, tranne che nel linguaggio psichiatrico, in cui si alterna con melanconia [Treccani, Vocabolario on line].
Difficile stabilire o meglio comprendere la differenza fra i termini che si legano alla melancolia. Forse si tratta di uno stato d’animo meno intenso della malinconia, forse si tratta di un qualcosa di impalpabile, nel caleidoscopio delle emozioni umane, tuttavia ugualmente percepibile.
E “Melancholia” è il secondo full-length della one-man band svedese Vahna, composta dal solo J. Johansson, che si sobbarca l’onere di mettersi tutto sulle spalle: voce, strumentazione, composizione.
Aprendo l’album con ‘The Road’, la succitata difficoltà di discernere il significato delle varie parole scema nell’istintiva percezione di ciò che è, di ciò che non è. L’incipit arpeggiato prepara l’anima ad accogliere la musica che, disperata nel suo mood grigio, tratteggia con il suo slow-tempo paesaggi vuoti, desolati, coperti da un eterno sudario color cenere. Benché l’inizio sia così funereo, quando le stupende armonie concepite da Johansson prendono il via, l’immaginario scenario che appare davanti agli occhi della mente si dirige verso le ormai note sensazioni melanconiche.
Certo, il fatto di appartenere a un Paese nordeuropeo aiuta lo stesso Johansson a scrivere con questa modalità: il paesaggio del lungo inverno boreale assomma a sé tutte le caratteristiche, nessuna esclusa, che vengono riproposte, tradotte in note, nel platter.
Il languido ritmo che accompagna le song entra nel profondo, accendendo le emozioni legate a quell’indefinibile percezione che è il male di vivere. Il morbido, leggero, etereo growling di Johansson aiuta, e non poco, a penetrare se stessi alla ricerca di stati d’animo dediti alla mestizia. Così come aiutano le orchestrazioni che accompagnano, senza sovrapporsi più di tanto quindi integrandosi, il suono della strumentazione classica. Soprattutto la chitarra, molto potente in fase ritmica, piangente lacrime salate in occasione delle parti soliste per via di un vago, impalpabile turbamento che si attiva nello spettro emozionale (‘Storm of Grief’).
Impressionante, per ciò, ‘Starless Sleep’, mirabile sogno di un sonno senza stelle. La visionarietà che la canzone riesce ad attivare nel cuore è possente, vivida, quasi afferrabile con mano. Il delicato suono di un violino modula il leitmotiv portante del disco che, brano dopo brano, smaterializza il medesimo per una percezione esclusivamente astratta del suono.
Suono che tecnicamente si assesta su livelli adeguati agli standard che esige il mercato internazionale: malgrado lo status di one-man band, i Vahna realizzano un’opera completa e matura, ricca di particolari, prodotta in maniera impeccabile; relegando nel dimenticatoio la convinzione che tali ensemble possano dar vita solo e soltanto a prodotti amatoriali o poco più.
Diverso il discorso sullo stile, scevro da particolari innovazioni e contaminazioni ma assai fedele ai dettami di un doom che si può definire atmosferico. Intimista, accogliente, spirituale. Così, le tracce si trovano ad assumersi una buona fetta di responsabilità del risultato complessivo, pregne di melodie dimesse, accompagnate anche dal pianoforte come in ‘Your Heart in My Hands’. Che mostrano ascolto dopo ascolto tutto il loro valore. Ciascuna di esse è un astro a sé ma, messe assieme, formano l’universo compositivo del Nostro.
Per questo, “Melancholia” espleta la sua idea primigenia in maniera perfetta, concentrandosi sulle canzoni affinché ciascuna di essa assuma un proprio carattere, una personalità spessa e tangibile, alimentata da un soffio vitale tenacemente armonico, in certi momenti palpitante e penetrante, in altri scoraggiato e piangente (‘Fade Away’), in altri ancora così mesto da indurre alla commozione (‘The Sorrowful’).
Per tutto quanto sopra espresso, J. Johansson è davvero il cantore della melancolia. Capace di risvegliare solo determinati stati d’animo tesi all’introspezione e al distacco dalla cruda realtà per volare sulle ali di una diffusa tristezza, trasognante e, in qualche misura, molto accogliente.
Daniele “dani66” D’Adamo