Recensione: Melodies of Atonement

Di Edoardo Turati - 7 Settembre 2024 - 22:19
Melodies of Atonement
Band: Leprous
Etichetta: Insideout Music
Genere: Progressive 
Anno: 2024
Nazione:
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78

Puntualissimi e precisissimi come un Philippe Patek, si ripresentano i norvegesi Leprous che nonostante facciano parte del filone del metal moderno sono in realtà quasi giunti ai vent’anni di carriera con una media ponderata di un disco ogni biennio. La formazione non si è messa in discussione e difatti ritroviamo gli stessi interpreti del precedente e alquanto dibattuto Aphelion; ai tempi definimmo i Leprous “abilissimi manipolatori di emozioni” e sicuramente le emozioni anche in Melodies of Atonement fanno da driver a suggestioni, apprensioni e turbamenti che i nostri vogliono trasmettere nei 51 minuti e stralci di secondi in cui apriremo un canale uditivo dedicato e bilaterale tra la nostra coscienza e la band di Einar Solberg. Avendolo appena citato diciamocelo subito senza parafrasare eccessivamente… Einar è un talento mostruoso e in questo disco forse in più di altri sembra tutto costruito sulla centralità della sua armonia canora; quello che rimane non sono chiaramente pleonastici orpelli, ma si palesa con più difficoltà lasciando una traccia evanescente e diafana (Einar d’altro canto è sia cantante, sia compositore).

Musicalmente Solberg aveva detto di voler rimuovere tutte le orchestrazioni presenti soprattutto in Pitfall e Aphelion e ha mantenuto la promessa con l’inserimento di dosi massicce di elettronica e vere e proprie acrobazie vocali: in questo senso l’inizio del disco con “Silently Walking Alone” è il paradigma di tutto il disco con un groove incalzante, un ritornello violento ed espressivo che ti stampa nell’ippocampo per un bel po’. La partenza spinge molto in alto ed è sempre rischioso perché poi devi mantenere lo stesso livello sino alla fine. Fortunatamente “Atonement” si adagia sulla stessa rotaia musicale e mantenendo l’approccio elettronico lascia ancora più spazio ad Einar che riesce a vagare tra delirio, veemenza, e distorsione. Siamo appena al terzo brano “My Specter” e va detto subito che l’effetto “inaspettato” si esaurisce qui.

La costruzione dei brani è sempre la stessa con un frammento iniziale molto ricercato e intimista, la musica appena percepita e difficile da afferrare che esplode violenta al tritolo nel refrain per poi nuovamente assopirsi e nel caso tornare a detonare nel finale ma solo se viene lasciato il tempo nella costruzione del brano.

I Hear the Sirens” e “Like a Sunken Ship” sono esattamente disegnate così, con la differenza che la seconda nell’esplosione risulta molto più prepotente e maligna con ottimi inserimenti di growl e un Einar più sofferente che mai. “Like a Sunken Ship” finale super forse il migliore di tutto il disco. “Limbo” prova a essere diversa e in parte ci riesce discostandosi leggermente dalla struttura classica, mantenendo una cadenza sincopata e rockeggiante per tutta la durata. Nel refrain si cede il fianco al music business… ma ci sta, il sound infatti è accattivante e non risulta particolarmente complesso farsi sequestrare dalle ottime sovrapposizioni musicali. “Faceless” riprende le coordinate derivative del disco, inserendo solamente qualche coro in chiusura di pezzo con Einar sommo giudice nel bene e nel male che non sveste la toga neanche nella successiva “Starlight”.

Ora arriva un pezzo estremamente controverso “Self-Satisfied Lullaby”: lo odierete o lo amerete senza mezzi termini. Se chiedessi di indovinare di chi è la canzone qualcuno potrebbe anche senza vergogna dire degli Hillsong; religiosamente sommessa e sussurrata come una preghiera, con un synth a tappeto apre la soglia della nostra essenza trascendentale. Il valore del pezzo sta nel preciso spazio-tempo di ognuno di noi, a seconda della necessità di una preghiera o di un clamoroso fragore. La chiusura è affidata a “Unfree My Soul” (mentre nella versione CD c’è la bonus track “Claustrophobic”) che nonostante sia un discreto pezzo non toglie o aggiunge nulla a quanto espresso sino ad ora dai Leprous e probabilmente è anche quello che verrà rimosso prima di tutti dalla regione interna del lobo temporale, vuoi per stanchezza o semplicemente per ridondanza.

 

Chi ha scarso interesse a leggere la disamina punto per punto avrà scorso velocemente sino a qui, fino alle conclusioni, quelle in cui con poche righe si deve (non sempre con facilità) condensare tutti i pensieri e le sensazioni provate nella fruizione musicale. E allora va detto con chiarezza quanto segue: oggi i Leprous sono troppo Einar Solberg (ascoltate 16) e nonostante le immense doti compositive e realizzative del frontman, il timore è che le due realtà stiano convergendo anziché avere due tracciati riconoscibili e distinti e due individualità musicali differenti.

Questo è quello che determina oscurità e chiarore di Melodies of Atonement.

È solo un’esortazione, un pensiero cautelativo ma che non mette in discussione il valore dell’opera.

 

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