Recensione: Memoirs Of A Shattered Mind
Prediletto figlio del metal ad esser contaminato con successo da altri generi in virtù delle sue (quasi) infinite possibilità di dissertazioni stilistiche, anche antitetiche verso i suoi dettami primigeni, il death sta timidamente cominciando a compiere un percorso evoluzionistico simile, ma non uguale, quello del black. In direzione, cioè, di ambienti avvolti da atmosfere più rarefatte, meno inclini alla brutalità e all’esagerazione sonora.
Un po’, appunto, come ha già fatto il metallo nero miscelandosi con l’ambient, la musica elettronica e la new age. Assumendo così una nuova connotazione decisamente diversa da quella di partenza, sì da darne singola dignità stilistica chiamata ‘post-black’ o ‘eerie emotional music’, con i francesi Alcest ad assumere il ruolo di capostipiti noti ai più.
Procedendo in maniera analoga, si potrebbe pensare allora a una sorta di ‘post-death’, riferendosi al duo finlandese Fractured Spine. Il quale, incurante del periodo storico attuale, in cui rigurgita ovunque l’old school, dal 2008 sta provando a trovare una propria identità timbrata a fuoco dalla sperimentazione, ma che al contempo non abbandoni quei canoni stilistici che, in un modo o nell’altro, rimandano sempre e comunque al death metal. Così, dopo due demo (“Frost”, 2008; “Eerie Messages”, 2012) e un full-length (“Songs Of Slumber”, 2013), dai titoli peraltro fortemente evocativi e indicativi del loro contenuto, è arrivata l’ora di “Memoirs Of A Shattered Mind”. E, anche in questo caso, nome e soprattutto artwork del lavoro lasciano intendere la sue particolarità. Che, forse, non è tanto diretta verso l’orbita di aggettivi quali ‘lugubre’, ‘misterioso’ e ‘strano’ (cioè, la traduzione letterale di ‘eerie’), quanto volto a estrinsecare dall’animo umano sentimenti di malinconia, mestizia e, a volte, di disperazione. Sentimenti, non a caso, la cui attivazione è facilitata certamente dalla grigia monotonia del paesaggio nordico durante le lunghissime notti artiche.
Ebbene, in questa esplorazione dei meandri della psiche umana in cui non giunge mai il sole, Timo e Antti Kirjavainen si dimostrano davvero bravi. Le linee vocali percorse dai due hanno il pregio di essere varie, sfiorando più stili dallo screaming alle clean vocals; ma è con il drammatico growling del primo che si attivano i neuroni atti ad amplificare la percezione di emozioni come la solitudine, l’estraneità dal monotono (e inutile?) trascorrere del tempo, quella languida melanconia che trafigge il cuore senza sapere il perché. Ed è proprio il growling a legare indissolubilmente la musica dei Fractured Spine al death metal. Anche se “Dead To Me” si rivela sufficientemente potente e movimentata, sino ad arrivare ai blast-beats durante il lacerante giutar-solo, sì da farla includere con facilità e naturalezza nei territori del metallo oltranzista, la maggior parte del platter trascorre il proprio tempo a girovagare, apparentemente senza meta, nelle gelide pianure stese fra i mille laghi della nazione scandinava. Una dimensione priva di spazio e di tempo che trova la sua magnifica astrazione in canzoni dalla straordinaria musicalità quali “This Dying Soul” e “Shallow”, seppur – almeno a parere di scrive – l’acme viene raggiunta durante gli istanti di massima evanescenza e terribile visionarietà (“Suicide Patterns”). E, in particolar modo, nella stupenda “Clock That Ticks”, il cui ritmo si accorda magicamente con quello vorticoso dei moti dell’anima, trasportando letteralmente l’ascoltatore nel mirabolante mondo dei sogni.
Manca solo un pizzico di continuità, in “Memoirs Of A Shattered Mind”, per farne un’opera dall’eccellenza assoluta. Qualche alto e basso di troppo nella regolazione dell’amplificatore emotivo. Roba che si aggiusta con l’esperienza, però.
Daniele “dani66” D’Adamo
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