Recensione: Men Who Climbed Mountains
Ai Pendragon non piace farsi notare. Ma proprio per niente. Da quando li conosco (da poco prima che uscisse Believe, credo), la pubblicazione di tutti i loro nuovi album è passata inosservata ai miei occhi, e credo sia accaduto lo stesso per molti. Anche perché i nostri si fanno sempre pregare prima di pubblicare un album – la loro media attuale è di una release ogni quattro anni, in piena linea con le altre leggende del prog d’albione, a cominciare da IQ e Pallas.
Sicché con un certo sgomento ho appreso alcune settimane fa che lo scorso novembre i britannici avevano raggiunto un nuovo capitolo discografico alla loro mirabolante storia. E nulla, ripetute ricerche su internet davano magri frutti. Poi ho cercato su Youtube e tra i video consigliati è apparsa la playlist di Men who climbed mountains. Il che un po’ lascia inquieti visti i collegamenti tra quel che un cerca in rete e ciò che la rete “casualmente” ti offre, ma tant’è. Nick Barret è un inguaribile cospirazionista, ed io almeno ho scoperto che il disco esisteva e senza indugio ho proceduto all’ascolto.
E che ascolto.
Mettendo subito le cose in chiaro, Men who climbed Mountains continua il nuovo corso, il terzo, della band anglica, quello cominciato col già citato believe. Melodie molto malinconiche, cupe, tonalità elettriche nonché la semplicità compositiva e d’ascolrto che ha sempre contraddistinto il quartetto, differenziandolo ad un tempo dal panorama prog mondiale. Pure in questo episodio si nota una qualità, un’ispirazione e soprattutto un’atmosfera che riportano indietro, agli anni d’oro. Tutto ciò grazie a chitarre ispirative, che alternano momenti acustici di quiete liquida ad assoli elettrici di alta caratura, incantevoli come non succedeva da un bel po’. Su tutte le composizioni svetta la coppia Come home Jack / In Bardo, talmente ben amalgamate da formare quasi un tutt’uno. Assolutamente da brividi. Anche gli sprazzi di luce che bagnano la seconda Beutiful Soul regalano momenti magici, ma tutta l’atmosfera che si respira è davvero grandiosa.
Il disco risulta, come da tradizione Pendragon, estremamente omogeneo, liscio e senza sbalzi, né relativi cambi di ritmo (che mai come in questo caso rimane basso ed introspettivo). Una sequenza di melodie vellutate, se non ovattate, di gran gusto, tinte grigie ed autonnali estremamente evocative. Oltre ai brani citati, impossibile non menzionare la meravigliosa Explores of the infinite, che ancora una volta regala chitarre acustiche di altissimo livello. In ogni caso, data anche la compattezza delle tracce, risulta molto difficile, o meglio, impossibile, trovare brani sotto tono.
Ciò detto, permane un fatto. Nonostante i livelli qualitativi altissimi raggiunti in questo nuovo corso (a cominciare da Pure), un po’ a tutti mancano i vecchi Pendragon, quelli sognanti ed incantati di The Window of Life, Not of This World e soprattutto The Masquerade Ouverture. Ciò nonostante, a ben guardare, Men who climbed Mountains innesta un po’ di quell’incanto nelle sue melodie delicate e nei suoi testi positivi, candidandosi ad essere una sintesi del sound recente e delle atmosfere precedenti. E candidandosi allo stesso tempo ad essere l’ennesima perla nella discografia britannica. Da ascoltare la domenica sdraiati a letto, a occhi chiusi e cuore aperto.