Recensione: Merciless Savagery
Gli AntropomorphiA sono una di quelle band che, teoricamente sopravvalutate, hanno sempre deluso alla prova pratica. Sarà che sono sponsorizzate dalla Metal Blade Records, sarà che sono olandesi – una delle patrie del death metal – , fatto sta che, anche con l’ultimo album “Sermon ov Wrath” (2017), non hanno convinto in termini di qualità tecnico-artistiche; nello specifico soprattutto artistiche.
Dal punti di vista tecnico, difatti, poco si può dire sull’abilità di una band nata nel 1989 con all’attivo cinque full-length, compreso questo, più demo ed EP vari. La notevole esperienza, quindi, unitamente a un approccio professionale alla questione, danno come somma un livello esecutivo allineato alla media di quelli delle migliori formazioni nell’ambito del metal estremo.
“Merciless Savagery”, il neonato, mostra finalmente una avvenuta maturazione, seppur tardiva, anche nella fase di elaborazione, cioè nel songwriting. Il quale, pur non lasciandosi del tutto alle spalle una storia che fonda le sue radici sino ad arrivare a trent’anni fa, conglobando nel sound, quindi, elementi di old school, ha sterzato, seppur di poco, verso il black metal. Giungendo così a forgiare uno stile appartenente al blackened death metal modernizzando, pertanto, un qualcosa che sapeva troppo di stantio e che non lasciava spazio né a sorprese, né a spunti particolarmente interessanti.
Tutto ciò si ritrova in toto sin da subito, nella forsennata opener nonché title-track ‘Merciless Savagery’. Il tono stentoreo con cui F affronta le linee vocali non ammette discussioni. Egli è il nocchiero che traghetta gli AntropomorphiA fra i marosi dell’Ade, finalmente pulsanti death metal attuale, in linea con i tempi, si potrebbe affermare… alla moda, se non fosse che il genere medesimo rifugge a gambe levate da tali schematizzazioni. La sua chitarra, assieme a quella di J., cuce riff pienamente immersi nel 2019, pur avendo insiti in sé un leggero, impalpabile alito del metallo anni ottanta. Il mood generato dal rifferama è buio, oscuro, tetro (‘Requiem Diabolica’). Esattamente come da avvenuta blackened-izzazione di uno stile certamente non ai massimi livelli in quanto a originalità e spirito evoluzionistico tuttavia, finalmente, concreto, adulto, perfettamente formato e disegnato nei suoi contorni. Un stile che rende merito, ed era ora, a un ensemble che, in ogni caso, non ha mai mollato la presa, non si è mai lasciato andare, non si è mai arreso.
Un ensemble a suo agio sia nei momenti di massima accelerazione, sia nei segmenti rallentati, ove emerge con vigore uno spessore emotivo che lascia il segno. Entrambi gli elementi variano da song (‘Luciferian Tempes’) a song (‘Cathedral ov Tomb’) oppure all’interno delle medesime (‘Womb ov Thorns’), donando varietà e vitalità all’insieme dei brani, e quindi a uno stile vivace, scoppiettante, sufficientemente ricco di passaggi degni di attenzione.
Il tutto supportato da un notevole dose di potenza, che non cala nemmeno quando il drumming di M diverge in direzione della follia dei blast-beats (‘Apocalyptic Scourge’). Proprio quest’ultima traccia, la migliore del lotto, si può affermare sia esemplificativa di una rinnovata linfa vitale che scorre all’interno di un sound terremotante, a tratti devastante, a tratti ossianicamente funereo (incipit di ‘Wailing Chorus ov the Damned’). Tornando ad ‘Apocalyptic Scourge’, un arcaico main-riff da demolizione totale regge un impianto sonoro terremotante, in cui si può godere, pure, del rombo di tuono emesso dal basso di S. Una killer-song, assolutamente. Uno sfascio completo ma chirurgico, operato con un’irreprensibile abilità restitutiva di idee cupe e maligne.
Riassumendo, quando sembrava che ormai gli AntropomorphiA avessero preso la strada del dimenticatoio, essi hanno improvvisamente rialzato la testa per riemergere dalla marea nera in cui erano affogati.
Anche questo è il metal (estremo): rigenerazione!
Daniele “dani66” D’Adamo