Recensione: Metal Allegiance
Provate a immaginare: avete iniziato a suonare in una band. La vostra musica, le vostre idee sono azzeccate. Un pizzico di fortuna vi permette di diventare qualcuno, trasformarvi in un punto di riferimento per tanti appassionati. Iniziate a suonare in lungo e in largo, a fare nuove conoscenze, a confrontarvi con altri musicisti, gente che condivide la vostra stessa passione per la musica. Si creano così nuovi legami, forti rapporti d’amicizia, si incontrano musicisti con idee affini, nasce la voglia di provare a confrontarsi con loro non solo a parole ma anche in sala prove. Difficile trovare il tempo per realizzare questo desiderio, gli impegni delle band principali non permettono momenti di pausa, non permettono progetti paralleli. Il desiderio diventa sogno, e, si sa, i sogni non muoiono mai. Così, anni dopo, quando meno te lo aspetti, gli eventi rendono possibile realizzare quel sogno, entrare in sala prove e jammare con quei musicisti con cui anelavi confrontarti da tempo. Se ti chiami Alex Skolnick, David Ellefson e Mike Portnoy, la jam non può che creare entusiasmo, diventare un qualcosa di importante, prendere forma e tramutarsi in una vera e propria band. Questa la genesi dei Metal Allegiance.
Come? Cosa dite? Una visione romantica e forse irreale per dare un senso all’ennesima trovata commerciale? Forse, ma vi prego, lasciatemi pensare che sia veramente andata in questo modo.
I Metal Allegiance prendono così forma nel 2011 quando Mark Menghi – definito da Portnoy come il Brian Epstein della band – riesce a far combaciare gli impegni del terzetto citato in precedenza. Coinvolgendo vari ospiti dai nomi altisonanti, i Metal Allegiance, come una sorta di The Avengers del metal, iniziano a calcare i palchi americani con una setlist caratterizzata da cover, eseguendo, divertendosi, i classici che hanno scritto la storia della musica a noi cara. Ma per quanto divertente, riproporre musica d’altri alla lunga può stancare. Così, nel 2014, Mark Menghi propone la stesura di un disco di inediti, un disco griffato Metal Allegiance. Coinvolti una serie di ospiti i cui nomi non hanno bisogno di presentazioni, nomi del calibro di Phil Anselmo, Chuck Billy, Gary Holt, Mark Osegueda, la nostra Cristina Scabbia – giusto per far capire quanto stimati siano i Lacuna Coil all’estero e quanto poco considerati in Italia -, il risultato è l’omonimo disco che ci troviamo tra le mani. Un disco che sicuramente non passerà inosservato.
Entrando nel dettaglio di Metal Allegiance, va subito citata la produzione estremamente curata, cristallina e potente allo stesso tempo. Dal punto vista stilistico il disco presenta varie influenze anche se, visti i nomi coinvolti, la componente thrash va per la maggiore. Credo sia quasi superfluo segnalare la prestazione dei singoli, qui si gira veramente su alti livelli, sia per quanto riguarda le capacità tecniche che per il songwriting. Songwriting che risulta curatissimo e, come accennato in precedenza, vario, riuscendo a personalizzare ogni traccia in funzione dei guest che si alternano al microfono, in modo da permettere loro di dare il meglio di sé, di poter fare la differenza. Tutto questo senza mai snaturare l’identità dei Metal Allegiance. Sì, perché sebbene sia una all star band con una formazione che varia di traccia in traccia, il sound risulta ben definito e personale, sinonimo di come i già citati Menghi e l’illustre triade che sta alla base del gruppo tengano e credano in quest’avventura. Ovviamente, con Ellefson e Skolnick in formazione, è quasi inevitabile incontrare nelle varie song parti ispirate a Megadeth e Testament.
Il disco si apre con Gift Of Pain, il cui attacco iniziale riporta alla mente una certa Taunting Cobras dei Savatage per poi esplodere in un assalto frontale ben interpretato alla voce da Randall Blythe dei Lamb Of God. La canzone presenta un’ ottima dinamica e riffing taglienti al punto giusto, riuscendo così a stamparsi subito in testa, grazie anche alla linea vocale e alla prestazione del già citato Blythe. Nel solo fa la sua comparsa Gary Holt, alternandosi in maniera letale con Skolnick.
Tocca poi a Let The Darkness Fall che vede Troy Sanders dei Mastodon alla voce. Una delle song migliori del disco, caratterizzata da una continua evoluzione che, partendo da un riffing portante di chiara matrice Testament, porta a una parte strumentale acustica che smorza l’incedere della traccia permettendo a Skolnick di salire in cattedra con un solo in cui fanno capolino elementi di flamenco. Dopo questa parte strumentale, l’anima Testament ritorna a scandire il finale. Una canzone poliedrica in cui va segnalato il drumming di Portnoy e l’ottimo lavoro di un Elleffson in forma strepitosa. Non da meno la prestazione vocale di Sanders, che con il suo stile quasi sognante si staglia alla perfezione in questa dimensione.
In Dying Song è Phil Anselmo a prendere le redini al microfono. La canzone è la più lenta ed oscura del disco, d’altronde con un titolo del genere non poteva essere altrimenti. Belli ed eleganti i fraseggi chitarristici di matrice Savatage che Skolnick piazza nella prima parte della track. La canzone si anima nel finale con dei riffing doomeggianti e un drumming incalzante in cui Portnoy inserisce qualche preziosismo che dona ulteriore bellezza alla traccia. E Anselmo? Beh, la cattiveria che sfoggiava nei Pantera è scomparsa da tempo, lo sappiamo, ma la sua prestazione è semplicemente perfetta per i colori di questa canzone. Riesce a viverla, emozionando l’ascoltatore. E scusate se è poco.
Primi tre pezzi e i Metal Allegiance non hanno sbagliato un colpo.
Arriva poi il turno di Can’t Kill The Devil con Chuck Billy alla voce. Con Billy e Skolnick in formazione la canzone assume inevitabilmente un retrogusto Testament. Proprio per questo, avendo quel sapore di già sentito, perdendo quella magia che si respirava nelle prime tre tracce, magia caratterizzata dalla convivenza di voci abituate a muoversi in orizzonti diversi rispetto a quanto fatto su questo disco, Can’t Kill The Devil risulta la traccia meno convincente dell’album. Da segnalare la presenza di Phil Demmel e Andreas Kisser alla chitarra che si alternano con Skolnick durante l’esecuzione dell’assolo.
Scars fa salire in cattedra Elleffson. Già a partire dall’intro di basso in cui basta ascoltare il suono per capire che a eseguirlo è lo storico bassista dei Megadeth. La canzone è caratterizzata dal duetto alla voce tra Mark Osegueda e Cristina Scabbia. Un riff made in Skolnick e una batteria i cui colpi sono vere e proprie frustate, sono il tappeto ideale per permettere a Osegueda di regalare un’ottima prestazione. La nostra Cristina incanta nel ritornello caratterizzato da una maggiore melodia in cui la chitarra di Skolnick traccia armonizzazioni in stile Megadeth, tappeto ideale per valorizzare la voce della cantante milanese – non per niente lo stesso Mustaine ha chiamato più volte Cristina come ospite nei Megadeth, qualcosa vorrà pur dire… -. Ma se i due cantanti realizzano entrambi prestazioni convincenti, è facile notare come le due voci non si integrino perfettamente, e nello stacco strofa-ritornello è possibile rimanere spiazzati per un istante. Azzeccatissimo l’assolo di Skolnick in cui spiccano melodie accattivanti e la “solita” magistrale pulizia d’esecuzione.
Destination: Nowhere vede come ospite alla voce e alla seconda chitarra Matthew K. Heafy dei Trivium. Le influenze Megadeth sono evidentissime e i Metal Allegiance mettono in mostra un’ ottima padronanza dei propri strumenti. Va segnalato, in particolare, il lavoro di Portnoy. Viene addirittura da chiedersi come mai Elleffson e Mustaine non abbiano pensato al talentuoso drummer e a Skolnick per completare la formazione della loro band principale. La prova vocale di Heafy è convincente, anche se in alcuni frangenti – in particolare nella strofa – ricorda un po’ troppo l’Hetfield della seconda metà anni novanta. Azzeccatissimo il ritornello. Melodico ed orecchiabile al punto giusto per esser memorizzato, senza il rischio di cadere nello scontato.
Con Wait Until Tomorrow ci imbattiamo in uno dei capitoli più articolati e piacevoli del disco. La canzone presenta varie anime e colori che vengono ben interpretati da Doug Pinnick dei King’s X e Jamey Jasta degli Hatebreed. Parti introspettive ed oscure si alternano a parti in cui la desinenza core è d’obbligo. Soluzioni che vengono valorizzate dalla prestazione dei due singer, due voci che si integrano alla perfezione nella struttura della song. Ottima la scelta di inserire nel finale di traccia una variazione in stile Alter Bridge che permette a Pinnick di sfoggiare al meglio la propria voce.
Ovviamente, con tutti questi musicisti di prima fascia, era lecito attendersi una strumentale con la “s” maiuscola. Ed eccoci accontentati con Triangulum, track suddivisa in tre parti: I. Creation II. Evolution III. Destruction. La canzone vede numerosi special guest alla chitarra, nomi come Matthew K. Heafy, Andreas Kisser, Phil Demmel, Charlie Benante. La track, caratterizzata da influenze Dream Theater, impressiona per la capacità di coinvolgimento dell’ascoltatore. Pur essendo articolata e complessa, le melodie ed i vari passaggi che la caratterizzano la fanno sembrare, ad un primo ascolto, semplice ed immediata, rivelando nuove sfumature ascolto dopo ascolto. Ennesimo highlight di un disco capace di centrare il bersaglio.
La versione regolare del disco si chiude con la terremotante Pledge Of Allegiance, sfuriata thrash old school perfettamente interpretata da un Mark Osegueda sopra le righe. Primissimi Metallica e Death Angel sono le coordinate di riferimento. Anche qui sono numerosi gli special guest alla chitarra, incontriamo infatti Charlie Benante, Gary Holt e Andreas Kisser. Il pezzo, diretto ed in your face, racchiude in sé tre importantissimi fattori: ispirazione, classe ed esperienza. Ergo, songwriting vincente.
La limited edition presenta anche la bonus track We Rock, omaggio al compianto Ronnie James Dio, cover non presente nel promo in nostro possesso.
Ma quindi? Come considerare il debutto dei Metal Allegiance? Semplice: come un disco che non dirà nulla di nuovo ma che risulta, salvo un paio di piccoli passaggi a vuoto, ben prodotto e ben suonato. Un disco, come si può intuire da quanto fin qui scritto, forse non adatto ai thrasher duri e puri, un album che punta ad una dimensione più mainstream (termine da prendere con le pinze, sia ben chiaro), ma capace di coinvolgere ed entusiasmare. Una mossa commerciale? Forse. Ma se tutte le trovate commerciali risultassero ispirate e suonate con passione come questo Metal Allegiance, beh, sarebbero manna da cielo! Ora, rimane solamente da capire quale futuro possa avere la band. Al momento è stata annunciata una tournèe americana, vedremo se le vendite permetteranno anche una tournèe europea. Ma soprattutto, se vi sarà un seguito al debutto o se la all star band americana si limiterà a questa prima opera. Forse ci stiamo ponendo troppe domande, meglio faremmo ad inserire il disco nello stereo, pigiare il tasto play ed iniziare l’ascolto. Metal Allegiance non deluderà.
Marco Donè