Recensione: Metal Commando
A due anni dal precedente “Apocalypse” tornano i teutonici Primal Fear col loro nuovo assalto all’arma bianca, nonché tredicesimo album da studio: “Metal Commando”, introdotto da una copertina che, dopo l’esplosione di colori del lavoro precedente, torna ad una sobria essenzialità dal profumo molto rétro. Attivi dal 1997, i Primal Fear potrebbero essere facilmente definiti come il paradigma di gruppo metal di stampo tedesco. Fieramente legati ai classici stereotipi del genere e refrattari a ciò che si discosta troppo dai suddetti stereotipi, i nostri portano caparbiamente avanti il proprio discorso musicale fatto di metallo che più classicamente tedesco non si può: un heavy quadrato, compatto e drittissimo, sporcato di power e come sempre imperniato sullo strapotere delle chitarre a sostenere il vocione agguerrito e stridente di Ralf Scheepers, ma che non disdegna l’inserimento nel proprio impasto di pesanti dosi di melodia, purché si mantenga sempre maschia e testosteronica. Sulla carta va tutto benone: il piglio è senza dubbio quello giusto, propositivo e diretto, senza fronzoli e caricato a pallettoni per far scapocciare più di una testa per il salotto di casa con un metallo che si rifà neanche troppo velatamente a certi Judas Priest. Purtroppo, non è tutto oro quel che luccica, come recita l’adagio.
Cominciamo con quello che funziona: con “Metal Commando” i Primal Fear scaricano sull’ascoltatore una serie di inni massicci e cavalcate tracotanti che si distendono su un tappeto di riff ultra abusati ma dall’impatto sicuro, assoli melodici e una sezione ritmica fatta apposta per ribadire il concetto di agguerrito. Anche la produzione fa ciò che deve: spinge il giusto e carica i suoni senza plastificarli troppo, donando a “Metal Commando” quell’aria moderna ma senza tracce di ruffianeria modaiola.
Il problema sta, a mio modestissimo avviso, nelle canzoni: a parte qualche fulminante impennata (come ad esempio “My Name is Fear”, in cui tutto si incastra alla perfezione anche a fronte di un tasso di prevedibilità comunque bello alto) “Metal Commando” sembra scritto col pilota automatico, vivacchiando senza sforzi grazie alle indubbie doti dei tedeschi nel creare tracce granitiche e a tonnellate di mestiere, senza però proporre ai fan qualcosa che si discosti almeno in parte da quanto fatto negli ultimi 23 anni. Che non sarebbe neanche un male, se le canzoni fossero un bel pugno in faccia: la storia è piena di gruppi che, nonostante una staticità compositiva a volte allarmante, sono riusciti comunque a portare a casa il risultato buttandola sulla semplice rabbia trascinante o su svariati tocchi di classe disseminati qua e là. Il fatto è che non è questo il caso di “Metal Commando”: durante l’ascolto sono pochi i guizzi veramente degni di nota, con tracce che, nonostante una grinta fin troppo sbandierata e una carica anthemica abbastanza spinta, appaiono comunque fin troppo canoniche e difficilmente rimangono a lungo nella memoria. Anche la lunga suite conclusiva, “Infinity”, alterna momenti interessanti e dal pathos intenso ad altri un po’ più di stanca, in cui sembra che i nostri vogliano solo allungare il brodo senza saper bene dove andare a parare.
In sostanza, “Metal Commando” non è un brutto album – i tedeschi ci hanno comunque abituato a prodotti che si portano sempre a casa almeno una sufficienza piena – ma soffre a mio modo di vedere di una certa stanchezza intrinseca che, seppur mascherata da riffoni tamarri, voce iraconda e ritmi agguerriti, affiora comunque con una certa insistenza fin dai primi ascolti, andando a togliere smalto ad un album che, comunque, farà la felicità dei fan del gruppo e ai defender più intransigenti, ma che difficilmente farà breccia tra ascoltatori più smaliziati o esigenti.