Recensione: Metal Cowboy Reloaded
Il nome Ron Keel vi dice nulla? Dovrebbe. Vocalist degli Steeler (quelli americani con Yngwie Malmsteen, non i tedeschi con Axel Rudi Pell), quindi titolare del progetto intitolato a se stesso, con il quale registra quattro album in altrettanti anni tra l’84 e l’87, uno nel 2010, e nel mezzo tra quelli e questo si concede anche una variante sul tema con una band cotonatissima, tutta al femminile, ad accompagnarlo (Ron Keel’s Fair Game), pubblicando un disco nel 2000. Oggi Ron Keel è un quasi sessantenne che per certi versi potrebbe essere il Pino Scotto della Georgia (anche se l’ex Vanadium ha qualche anno in più). Una vecchia gloria del rock duro che ancora tiene botta e che col progredire del tempo torna sempre più alle origini della sua formazione musicale. Se negli Eighties si poteva parlare di hard ‘n’ heavy cromato e bellicoso, oggi Keel è sinonimo di hard rock con forti venature country e segnatamente sudiste.
Il qui presente “Metal Cowboy” (il titolo già dice tutto sulla direzione musicale) è la versione reloaded del disco pubblicato originariamente nel 2014. Rimasterizzato, remixato, con impacchettamento deluxe e qualche chicca bonus ad impreziosire una scaletta altrimenti già nota. Ospiti ne abbiamo? Certo, Troy Lucketta dei Tesla, Jeff Labar e Eric Brittingham dei Cinderella, oltre alla consueta formazione che accompagna il cowboy. Musicalmente lo stile Keel si attesta tra il rock di Bon Jovi e Def Leppard (le armonie vocali di “Evil Wicked Mean & Nasty” farebbero invidia ad un Joe Elliot un po’ sborone e palestrato) e lo spirito redneck di Molly Hatchet e Lynyrd Skynyrd (quelli 2.0, niente a che vedere con le sonorità classiche ’73 – ’77). Muscoli, testosterone, mascolinità alfa, rodeo, whiskey del Tennessee e tanta sfrontatezza, questi gli ingredienti di una serata alcolica in compagnia della musica di Keel. Tutto molto gradevole e lineare, anche piuttosto scontato e privo di sorprese a dirla tutta. Dipende cosa cercate e cosa vi aspettate. L’album è ben prodotto e suonato? Si. Ha una manciata di canzoni piacevoli? Si. E’ indispensabile? No. Aggiunge una virgola all’hard rock che potete aver ascoltato negli ultimi trenta o quaranta anni? No. Vi cambia la vita? No.
Schietto, diretto, senza pretese, se non quella di intrattenere con mestiere, esperienza e qualche capello bianco sotto il cappellaccio da cowboy. Per altro è la riproposizione di un album già uscito quattro anni fa, quindi davvero impossibile pretendere alcunché di particolarmente sorprendente o nuovo. Magari qualcosina di più sarebbe stata apprezzabile, siamo davvero al minimo sindacale del rock americano confederato. Potreste far scopa con Kid Rock, anche se Keel è meno ruffiano ed ammiccante, e più vecchia scuola. Abbiamo il blues, abbiamo le radici americane, abbiamo la nostalgia per quando si stava peggio, abbiamo le chitarre elettriche, abbiamo la frontiera. Chiudete gli occhi, fate un salto indietro da qualche parte nelle Sioux Falls, Sud Dakota – dove Keel si è riposizionato – e immaginatevi praterie popolate solo di pellerossa e pionieri dello zio Sam. Il sole vi indicherà la strada, tra uno stornello e l’altro di mister Ron Keel.
Marco Tripodi