Recensione: Microcosmos
Abeti immersi nell’oscurità, nubi sovraesposte e rumore ovunque: l’ennesima copertina a sfondo naturale è dedicata ancora una volta a immagini del tutto familiari, ma è l’ennesimo inganno semplicistico dei Drudkh. La copertura classica riporta il pensiero alle lunghe sessioni di sound decadente e soffocante intrise delle meraviglie introspettive tipiche del pagan supremo nordeuropeo, e a dire il vero dei punti in comune con i blasonati Moonsorrow di ultima generazione non sono del tutto invisibili; non a caso ci dirigiamo con decisione verso est; ma la ciclicità dei brani è assimilabile anche alla mostruosa epicità dei Summoning, quel senso di stordimento e di sperdutezza che aleggia nei brani, minaccioso, tutt’altro che confortevole; uno dei tanti meccanismi che rendono l’esiguo filone del pagan ucraino tanto diverso da quello decisamente più abbordabile dell’occidente europeo.
Tra le pieghe della loro musica non si percepisce solo l’immensità della taiga e la volta notturna celeste che ruota lentamente attorno all’ascoltatore sgomento, disegnando archi stellari la cui rivoluzione è sottolineata da brevi passaggi marziali di “Ars Poetica“, o ancora dalle soffuse atmosfere di “Decadence” che disegnano letteralmente il trascorrere del tempo. Come in “Sunset in Carpathia” si riusciva a percepire con spettacolare nitidezza il morire del disco solare dietro una fila di colline – un tema proposto con simbolismo penetrante dai Negura Bunget, guardacaso anche loro figli dei grandi imperi dell’est, e sviluppato nella palpitante epopea naturalistica antropocentrica di Om – così in Microcosmos si respira una nebbia fredda e impalpabile, nemica, spietata.
Perché i brividi dei Drudkh non sono gli stessi delle poche altre band che hanno avuto il coraggio, e il talento, di proporre al pubblico lo stesso pagan discorsivo che al momento rappresenta i vertici del genere? Perché con i Finsterforst ci si sente al sicuro, con i Menhir ci si sente avvolti da un calore intorpidente, con i Moonsorrow ribolle il sangue… mentre i Drudkh diffondono un’atmosfera spesso sinistra e poco rassicurante?
Il pagan dell’est ha una sensibilità tutta propria incarnata costantemente da band blasonate come Graveland. I Drudkh più chiacchierati dagli ascoltatori occasionali, quelli di Autumn Aurora, quelli di Songs of Grief and Solitude, sono i Drudkh che mantengono il punto di contatto più saldo con l’immaginario occidentale del folk, quello legato agli stimoli più palpabili della natura e delle stagioni. Ma i veri Drudkh sono i musicisti senza volto che non rilasciano interviste, sono gli sfrontati che pubblicano EP esclusivamente in vinile e limitati a 999 copie, ma soprattutto sono i Drudkh ribelli nelle cui orecchie risuonano ancora i colpi di fucile portati a coloro che tentavano di scavalcare il muro di Berlino.
Bogdan Rubchaka, Taras Shevchenko, Oleg Olzhych ma soprattutto Ivan Franko sono i poeti ucraini i cui versi immortali prendono vita e scalpitano lungo i sei anni di carriera dei Drudkh iniettando quel quid inquietante le cui vibrazioni sono appena percepibili all’orecchio occidentale, ma bastano per perpetrare una sensazione di disagio impalpabile e pressoché inspiegabile. A quel punto i Drudkh non sono più aedi della natura ma massoni del sociale, figli irrequieti dell’arte nazional-popolare tanto cara ai combattenti dei primi del ‘900 e a musicisti del calibro di Varg Vikernes: ed eccoli citare nuovamente un album del loro passato, Estrangement, per riportare all’ascolto un estratto della colonna sonora di Atentat, film insurrezionalista del 1995 che allontana “Widow’s Grief” dall’immaginario pomposo ed eroico di “Distant Cries of Cranes” per omaggiare un partigiano del socialismo assassinato in circostanze decisamente sinistre. L’impossibilità da parte dei Drudkh di scindere l’ars naturale dall’ars politica è uno degli aspetti più affascinanti del combo ucraino; le eleganti evoluzioni delle nubi in copertina si intrecciano con le evoluzioni più tetre dell’animo umano creando un perfetto connubio tra la ribellione black fino al midollo di Estrangement e la compostezza di Songs of Grief and Solitude, la cui importantissima eredità folk si palesa nell’intro “Days that Passed” ma che non procede oltre, esattamente come accadde nel finale a sorpresa di The Swan Road. Microcosmos è un disco la cui estrema scorrevolezza non palesa fino in fondo la sua complicata genesi socio-culturale. È sì un album di musica clinicamente perfetta nel suo incedere, che può scegliere di scivolare via in morbidezza o di grattare al suo passaggio come un foglio di carta vetrata: la scelta quantomai consapevole è data all’ascoltatore; i Drudkh non hanno mai scelto di gridare ai quattro venti l’estremo coinvolgimento letterario dei propri lavori, basti pensare a un disco socialmente angosciante come il sopracitato Swan Road che mostra una copertina volta a ingannare proditoriamente l’ascoltatore portandolo a pensare a un disco di pagan black serrato di ispirazione puramente naturale.
L’oscurità dei testi e la volontà di non pubblicarne una buona parte aumenta l’alone di mistero e la sensazione di disagio procurata da buona parte dei loro album, tradizione che certamente proseguirà anche oltre Microcosmos. Il ritorno alla voce black a tout court e alle struggenti melodie miste che han fatto la fortuna di Blood in Our Wells mi hanno fatto passare minuti d’ascolto ad aspettare il colpo di tuono che come una fucilata sconquassa le trame una certa “Capitel III: Graablick blev hun vaer”, ma senza successo: troppo tardi mi sono reso conto che la mia mente era stata trascinata nel pieno della furia di Bergtatt tra le note di Distant Cries of Cranes: un disco moderno che trasmette ancora il brivido del black primordiale degli anni ’90. Il basso martella e veloci scorrono le chitarre acustiche che si sovrappongono alle elettriche del gioiello “Everything Unsaid Before“, che del tumulto black fa arte espressiva e visionaria.
Questa è la magia di Microcosmos: pescare nel nero del black primigenio, nel rosso del sangue che ha macchiato per secoli una nazione e nel grigio della natura silenziosa e imperturbabile delle smisurate repubbliche lacerate dalla cortina di ferro. Il nostro caporedattore Death ha lapidariamente etichettato i Drudkh come una delle migliori realtà estreme del panorama mondiale: quale miglior cesura? Impossibile dargli torto.
Daniele “Fenrir” Balestrieri.
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TRACKLIST:
1. Days That Passed
2. Distant Cries Of Cranes
3. Decadence
4. Ars Poetica
5. Everything Unsaid Before
6. Widow’s Grief