Recensione: Might & Magic
Ci sono dei casi, nella vita musicale di ognuno di noi, in cui si può andare tranquillamente la sfera del già sentito, della perfezione esecutiva: il tutto in favore dell’attitudine più sinceramente onesta e disinteressata che prevale su aspetti i quali, tipicamente, rappresentano standard di riferimento nonché di apprezzamento su cui ognuno a noi ha finora fatto affidamento.
Questa analisi potrebbe concludersi con queste parole, in quanto, in positivo, tutto è già stato detto e quel poco sarebbe anche già molto: “quando l’attitudine prevale sulla perfezione” sarebbe un motto ideale da adottare per questi quattro simpatici tedeschi denominati Iron Kobra, ed una semplice recensione sminuirebbe di molto il valore reale di questo disco.
Si, perché in “Might & Magic”, seconda fatica discografica dei teutonici dopo “Dungeon Master” ed una sfilza di EP (ben 6), c’è ben più che semplice metallo, c’è ben più che una pacchiana cover la cui ‘pacchianaggine’ stessa è peraltro simbolo di una ben precisa mentalità (alias attitudine) di voler rimanere segregati al di fuori del tempo conosciuto, di ignorare i limiti e far finta che oggi, su quel calendario, ci sia scritto 1986 e non 2015: questo disco (e dischi come questi) è il testamento di un’attitudine talmente spontanea da rendere immediatamente riconoscibile la sensazione che rende il nostro metallo la musica più bella del Mondo, e scrivo il tutto senza voler minimamente esagerare.
Conviene allontanarsi dalla concezione da puro esteta del post-2000, da raffinato ascoltatore di super-produzioni moderne ed ampiamente digitalizzate (per quanto anche questo disco credo sia stato registrato o almeno missato con tecniche digitali, ma la digitalizzazione della registrazione stessa è un estremo che qui non trova posizione) e rintanarsi nella rassicurante e benevola convinzione che l’heavy metal, quello più roboante e roccioso degli anni ’80, non sia mai morto.
Quindi tirate nuovamente fuori dal vostro armadio quella maglietta scucita dei Running Wild o quel che preferite, così come il vostro gilet di toppe ed i vostri polsini di borchie, indossate un bel paio di scarpe di tela sotto dei jeans sdruciti ed aderenti (evito di infierire sui capelli che non tutti posson vantare con il passare del tempo, come il sottoscritto…) e sarete a cavallo, è lo spirito giusto: dopo 6 secondi atti a richiamare la vostra attenzione, partirà il riff principale di “Tomb of the Stygian King” e capirete davvero di essere nel paradiso del metallo tuonante.
Poco importa che in parecchi passaggi il singer/chitarrista sia stonato come una campana, che alcuni momenti chitarristici (l’assolo soprattutto) suonino forse un pelino imprecisi: negli anni ’80 non si badava certo a certe cose, vigeva la sostanza e basta poco a capire che tra questi solchi di sostanza, rigorosamente metallica, se ne trova molta. Il suddetto brano, posto in apertura, suona un po’ come un cancello di sicurezza (è il brano con più sbavature dell’intero disco) per assicurarsi che l’ascoltatore capisca con chi davvero ha a che fare e che, dopo questo rito di iniziazione, lui stesso sarà ipnotizzato dalle poderose cavalcate heavy che verranno da lì a poi.
E dopo l’accensione (di un fiammifero oppure un cannone?) parte “Fire!” e l’acuto ci introduce alle danze dell’hard n’heavy più sguaiato e da metal party che esista nel 2015: quello degli Iron Kobra.
Allora sì che ve ne fregherete alle grande delle numerose imperfezioni dei brani, specie quelle del cantante che prende una stecca ogni 20 secondi a seconda dei momenti, intervallando le sue altalenanti doti a picchi acuti certamente non facili da eseguire….un’attitudine a volersi mette su disco per quel che si è per davvero, anche perché se alle soglie del 2016 incidi un disco in questa maniera, con una copertina di questo tipo, o sei un incosciente esaltato o sei veramente convinto di avere qualcosa in più degli altri, anche se questi altri sono tecnicamente migliori di te.
Secondo la umile opinione del sottoscritto, francamente sembra che ci ritroviamo ampiamente nei ranghi del secondo caso: l’heavy a tinte power/speed puramente ottantiane (e spudoratamente tedesche, oserei aggiungere, con ovvi richiami alle sonorità NWOBHM) dei quattro teutonici non accetta compromessi e dopo pochi accordi sarà l’ascoltatore stesso ad accorgersene, dato che il metaller occasionale (o quello più progster, concedetemi una frecciatina….) avrà spento il tutto con atteggiamento schifato….ma qui ci siamo noi, quelli ‘duri’, quelli ‘veri’, quelli che sanno che il metal stesso ha in sé l’essenza dell’attitudine e della passione, sfegatata, sincera.
Dopo le prime due cartucce arriva l’highlight del disco, “Vanguard of Doom”: un riff classicamente hard n’heavy, un ritmo sostenuto (il genere suonato alla fine non è che altro che un power metal degli albori, quando ancora il fattore speed & heavy predominava rispetto a tutto quello che è stato aggiunto dopo ed ha poi definito i concetti del power metal così conosciuto) ed una parte vocale recitata in maniera più caciarona che mai, breve quanto basta….tutte le liriche sono incentrate, da come la copertina lascia presupporre, su un mondo/immaginario di stampo fantasy di livello piuttosto ordinario quindi date pure il via a dragoni, sovrani, principesse, spade (e pistole, almeno a giudicare da quella che si porta appresso l’eroe della copertina) e duelli di ogni genere con demoni, draghi e chi più ne ha più ne metta: in fondo, basta anche solo dare un’occhiata ai versi del ritornello della citata “Vanguard of Doom” per rendersene conto….
“ Satan has summoned his elite,
An army of Styr, under the Moon.
Mankind was crushed into ruins,
They’re coming for you – The Vanguard of Doom!”
(Vanguard of Doom)
Tutti i 9 brani presenti hanno una qualità costante, con l’unica pretesa di intrattenere con gusto: e quest’ultimo, logicamente, non chiede di più.
Come una versione fumetto dei primi Blind Guardian, oppure una copia ironica degli Helloween di “Walls of Jericho”, i furiosi menestrelli teutonici schizzano il volo incuranti delle stonature (parecchie, fidatevi) e delle imprecisioni varie, facendo affidamento unicamente sulla loro passione nel corso di tutta l’opera: e francamente, data l’energia sprigionata, riescono nell’intento dove molti altre band ben più precise falliscono, vale a dire di divertire sul serio l’ascoltatore.
I brani sono tutti semplici e diretti, ma non per questo privi di cambi di tempo ed atmosfere (numerosi sono gli inserti di piccole parti di chitarra acustica lungo i brani) in grado di renderli più vari e stuzzicanti, fino al crescendo acustico definitivo di “Cult of the Snake” mentre la produzione, sebbene leggermente brillante giusto per farci ricordare che alla fine siamo pur sempre nel 2015, non è mai supercompressa come da tradizione moderna, ricordando sempre e comunque il feeling degli storici album speed degli anni ’80.
Sommate il tutto all’artwork (stupendo, ad opera di Maro Lopez) di copertina ed un libretto che sembra uscire, per concetto, dalle sessioni di un “Long Live Rock n’Roll” dei Rainbow ed otterrete “Might & Magic”: un viaggio fuori dai ranghi della modernità, fulcro di una mentalità che rivive anche fulgida nell’underground più fecondo, il True Metal.
Candidato numero uno al titolo di Album Sorpresa dell’anno, oltre che di Album più Coraggioso del 2015.
E non è poco: una volta rimossi i pregiudizi, la birra scorrerà a fiumi e il divertimento sarà assicurato.