Recensione: Mind Burns Alive
I Pallbearer tornano, a quattro anni da “Forgotten Days” (ve ne avevamo parlato qui), col loro quinto sigillo: “Mind Burns Alive”. Nati come promessa del doom, i nostri baldi americani non hanno mai fatto mistero del loro amore per le commistioni sonore, che li ha portati a imbastardire sempre più la propria ricetta donandole un’espressività affascinante e personale. Prevedibilmente, “Mind Burns Alive” prosegue su questa linea, presentandosi come un lavoro meditativo in cui il doom sopraffino dei nostri viene ampiamente diluito dalle onde di un’attitudine progressive dilagante che, se da un lato stempera la portanza metallica in favore di una formula apparentemente più accessibile, dall’altro mantiene intatta la sua gravitas emotiva. Iniziato nel 2020 e più volte rimandato per i ben noti motivi, “Mind Burns Alive” ci parla di isolamento, solitudine e delle fragilità che si incancreniscono nell’animo umano costretto ad assistere al ribaltamento del proprio mondo attraverso brani lunghi e articolati ma dallo sviluppo splendidamente organico. Su tempi lenti e oppressivi si innestano chitarre cupe, ancora di matrice doom, che tratteggiano le prime ombreggiature emotive prima di fondersi con melodie languide, ora malinconiche e ora solenni, a loro volta punteggiate da qualche sporadica dissonanza e lumeggiate da arpeggi meno opprimenti. Questo saliscendi emotivo viene coronato da un comparto vocale non meno sfaccettato, che passa da toni freddi e distanti a sussurri di cupa rassegnazione, in cui di tanto in tanto affiorano rabbia impotente o brevi squarci più speranzosi. Ognuna delle tracce di “Mind Burns Alive” può essere vista come elemento a sé, ma a mio avviso da il suo meglio come parte del quadro più ampio: sia la scansione dei pezzi lungo la scaletta che il fluire interno di ogni brano sono gestiti in modo attento, frutto di una cura certosina ma senza per questo suonare artefatti, e contribuiscono a creare un moto ondoso continuo, perturbante e inesorabile per tutti i cinquantun minuti di “Mind Burns Alive”, a rappresentare il progressivo e logorante conflitto tra la disperazione e la volontà di non cedervi.
L’apertura è affidata al singolo “Where the Light Fades”: l’arpeggio tranquillo introduce un pezzo ugualmente pacato, dal vago retrogusto dark wave, in cui inizia già a farsi largo un senso di inquietudine latente. Il riff della title track torna a profumare di lidi più familiari, spandendo fin dai primi secondi un profumo in cui doom e rock si fondono. Melodie malinconiche tornano a diluire il pezzo, sfumandolo in una strofa dimessa e sussurrata che torna a caricarsi nel ritornello più propositivo. Il pezzo insiste su questo dualismo, pennellando note via via più enfatiche nell’ultimo quarto e sfumando nella successiva “Signals”. Qui un comparto strumentale ridotto all’osso striscia sinuoso tra un arpeggio languido e un percussionismo minimale, sorreggendo la voce sofferta per esplodere, anche qui, in un trionfo di melodie ed armonizzazioni vocali in cui, però, si percepisce ancora una certa inquietudine. “Endless Place” sembra svilupparsi come prosecuzione della traccia precedente, caricandosi però di un’incombenza più graffiante per fungere da primo punto di svolta dell’album. Lo stacco crepuscolare dona al pezzo un respiro sornione prima del ritorno a toni plumbei, mentre l’ottima digressione del sax aggiunge quella scheggia impazzita (grazie al sottofondo via via più tempestoso che ne aumenta il carico straniante) che gli dona la giusta scossa prima di un finale evocativo e carico di aspettativa. “Daybreak” spezza la tensione dispensando placida indolenza grazie a un tappeto sonoro dimesso ed accessibile; l’impennata di pathos arriva con l’alzata di toni che si spegne poco dopo, per tornare a macinare melodie meste ma dalla notevole solennità, confezionando la traccia forse più introspettiva dell’album. “With Disease” chiude le danze nel modo migliore: anche stavolta il pezzo mescola gradienti emotivi diversi, creando un perfetto climax grazie a un vortice emozionale e sfaccettato di sofferenza, rassegnazione ed inquietudine. Le melodie si intrecciano, si cercano, si allontanano e rimangono sospese, in attesa, sfumando poi in una parte centrale più cupa e guardinga (ancora una volta rievocante una certa estetica dark) e in un baratro in cui si torna al doom più classico, ribollente e sulfureo, che chiude il sipario su un album bello ma che forse farà storcere le orecchie a chi si aspettava un lavoro più canonicamente doom.
Al di là delle etichette “Mind Burns Alive” conferma brillantemente le qualità del quartetto dell’Arkansas, che porta avanti il proprio percorso evolutivo in modo coerente e sforna un altro album da non farsi scappare: un lavoro denso e appassionato ricco di suggestioni, spunti e dalla potente carica emotiva.