Recensione: Mindrevolutions
A prima vista qualcuno potrebbe affermare che la gli odierni Kaipa stiano vivendo una sorta di seconda giovinezza. Dopo aver tenuto alto il vessillo del prog scandinavo nel corso tra il 1975 e il 1982, da tre anni a questa parte la band svedese è difatti ritornata prepotentemente sulle scene sfornando due album di indubbio valore, cui oggi si aggiunge questo interessante Mindrevolutions. Il sound germogliato dall’estro creativo di Hans Lunden (tastiere), principale songwriter della band, affiancato dalle estrose chitarre di Roine Stolt (The Flower Kings, Transatlantic), affonda le proprie radici nel rock progressivo della vecchia scuola, quella tra gli altri di Yes, Genesis e Camel, esibendo una marcata predilezione per le tinte sinfoniche ma senza disdegnare deliziose contaminazioni dal folclore locale. Ne nasce un frutto polposo e zuccherino, dal sapore delicato e gratificante, con un massiccio retrogusto di Flower Kings a ricordare la terra dalla quale ha ricavato il proprio nutrimento. Ma la personalità dei Kaipa è sempre forte, il loro nuovo sound personale e distintamente riconoscibile, in forza anche dell’inconfondibile e affiatata coppia di voci che risponde ai nomi di Patrik Lundstrom e Aleena. Espressivo e incalzante lui, carezzevole e mielosa lei, il loro lavoro sinergico, non solo in staffetta ma anche e soprattutto nei cori, riesce sovente ad azzeccare la melodia vincente, quella che poco alla volta si piazza nella mente per non uscirne più.
Forse è questo il tratto più peculiare di Mindrevolutions: melodie ammalianti, sinuose, a tratti persino fiabesche, concatenate in modo tale da svelare il proprio fascino a poco a poco, lentamente, concedendosi completamente, nonostante la loro apparente semplicità, solo dopo numerosi ascolti. Fa forse eccezione la languida immediatezza di Shadows of Time, che dopo un’estemporanea intro strumentale si dispiega in un gentile crescendo di rilassato romanticismo, mentre il canto suadente e materno di Aleen provvede con dolcezza ad addormentare i sensi. Per il resto, solo il tempo può rendere giustizia alla misurata raffinatezza dei brani. E così anche un’opener d’impatto come la prorompente The Dodger, vivacizzata da repentini sbalzi ritmici, pur lasciando intravedere fin dalle prime battute sfavillanti lampi di classe, con un Lundstrom subito protagonista in un esordio in stile quasi country, necessiterà di particolare attenzione perché ogni sua porzione possa scintillare a dovere.
Ma non indugiamo oltre, e gettiamoci alla scoperta dei ventisei primi di Mindrevolutions. Una canzone che si libera in poche battute del fastidioso sospetto di cartellino timbrato per assecondare la tradizione progressiva, rivelandosi immediatamente l’elemento più completo e interessante della famiglia. Ancora una volta l’accoppiata vocale riesce a distillare armonie incantevoli, soprattutto laddove i due fondono le rispettive voci in una sola, regalando alcuni dei momenti più alti del disco. Ma non è tutto. L’asse tastiera-chitarra-basso mostra una solidità d’eccezione, intrecciando soli morbidi e sinuosi, appoggiati alle ritmiche discrete e leggere del veterano Morgan Agren – a suo tempo assoldato, appena diciassettenne, da tale Frank Zappa – che tuttavia difettano talvolta di quell’estrosa autorevolezza che sarebbe stato lecito aspettarsi. I cambi di passo sono comunque quelli giusti, e le lunghe digressioni strumentali riescono sempre ad anticipare i desideri dell’ascoltatore, fingendo di assecondarli ma invero guidandoli con un sorriso amichevole e rassicurante, senza mai dare adito a distrazioni o sbadigli. Una menzione particolare va per l’operato di Reingold, capace una volta in più di confermare la propria classe con linee di basso brillanti e corpose, spesso in grado da sole di sostenere l’attenzione in più d’un passaggio.
E’ naturale che dopo un’esibizione tanto imponente e impegnativa, tanto per gli esecutori quanto per l’ascoltatore determinato a non lasciarsi sfuggire alcun dettaglio, la tensione cali, e con essa la qualità dei brani. Tuttavia prima del commiato ci attende ancora un colpo a bersaglio. Recuperato il fiato nella facile e riposante (per pubblico ed esecutori) Flowing Free, ecco infatti appropinquarsi Last Free Indian, brano pacato ma intenso, impreziosito da una preponderante componente acustica. Quando giunge il momento del refrain il songwriting si dichiara riconoscente debitore di Lennon, ma la fusione con le sonorità di casa Kaipa è tanto naturale quanto azzeccata. Finale che si annuncia in calando, e che probabilmente tocca nella spensierata Timebomb il punto più basso di tutto l’album, fin troppo lineare e prevedibile per gli standard di una prog-song. Prima della fine tuttavia si torna in carreggiata col lesto colpo di coda che va sotto il nome di Remains of the Day, in cui si segnalano un paio di ottimi assoli di chitarra e tastiera davvero degni dei rispettivi autori.
Riempire un disco di musica di alto livello non è impresa da poco, i Kaipa con i loro settantanove minuti e dodici secondi ci hanno provato, registrando un successo parziale. Dopo le buone parole spese per le migliori creazioni di Lunden, infatti, non si possono tacere i cali di tensione che penalizzano in parte quanto di buono accumulato con la title track e i brani di maggior spicco. Oltre al succitato finale sottotono, dunque, c’è da dire che pur nella loro piacevolezza certe strutture tendono verso un generale appiattimento, ritmico prima di tutto, tale da rievocare a tratti quella spiacevole sensazione di “già sentito” che solo una qualità eccellente sarebbe in grado di mettere a tacere. A questo proposito, tracce come A Pair of Sunbeams appaiono fin troppo lineari nel loro sviluppo per meritare di sopravvivere a una manciata di ascolti. Non compare d’altra parte alcuna evidente novità rispetto al precedente Keyholder – che con Mindrevolutions condivide i pregi ma non i difetti – e di certo chi fino a oggi non ha digerito il timbro smaccatamente zuccherino di Aleena, come chi non vede di buon occhio la limitata estensione vocale di Lundstrom, non cambierà idea oggi: le loro voci sono di quelle che si odiano o si amano, difficile trovare mezze misure. Si aggiunga, da ultimo, che l’omogeneità bucolica delle atmosfere rischia alla lunga, se non di annoiare, quantomeno di alienare l’attenzione nei passaggi mano ispirati: si avrà a questo punto un quadro piuttosto definito delle principali pecche dell’album. La validità del prodotto non è certo in discussione, ma chi non ama le sonorità troppo radiose e floreali, come chi da un disco prog si aspetta una sofisticata ricercatezza ritmica e melodica, potrebbe rimanere solo parzialmente appagato. Ugualmente, chi è in cerca di soddisfazione musicale immediata, non troverà di sicuro qui la pietanza ideale con cui sfamare i propri appetiti.
Troppo semplice per un appassionato del progressive, troppo complesso per chi ama melodie più accessibili: questo il tipo di disco che si rischia di mettere assieme quando si percorre il cammino intrapreso oggi da Lunden e Stolt. Fortunatamente non è il caso di Mindrevolutions, che riescei infine a proporsi come ibrido capace di far scintillare i numerosi pregi sulle occasionali zone d’ombra, cosicché in ultima battuta anche i detrattori dovranno rassegnarsi a riconoscerne i meriti. E come è vero che i migliori lavori di casa Kaipa appartengono alle scorse decadi o anche al recente passato, è altrettanto innegabile che perle come la sola title track varranno l’acquisto da parte di ogni appassionato della band. E non solo.
Tracklist:
1. The Dodger (8:09)
2. Electric Leaves (4:13)
3. Shadows of Time (6:50)
4. A Pair of Sunbeams (5:19)
5. Mindrevolutions (25:47)
6. Flowing Free (3:53)
7. Last Free Indian (7:27)
8. Our Deepest Inner Shore (4:59)
9. Timebomb (4:32)
10. Remains of the Day (8:02)