Recensione: Mirrorworld

Di Luca Montini - 1 Novembre 2016 - 0:00
Mirrorworld
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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70

(S)fortuna imperatrix mundi. Sirius Black non è proprio il personaggio più fortunato della saga di Harry Potter: padrino e tutore dell’occhialuto protagonista e grande amico dei suoi genitori, che consegna inconsapevolmente a Voldemort suggerendo loro Peter Minus come Custode dell’incanto Fidelius. Si ritrova poi incarcerato ingiustamente per dodici lunghi anni ad Azkaban, condannato per aver ucciso dodici babbani. Sopravvissuto al tormento dei Dissennatori, torna ad Hogwarts per fare giustizia e conosce Harry, ma finirà ucciso qualche tempo dopo per mano della cugina Bellatrix, fedele alleata del nemico. Solo dopo la morte verrà riconosciuta la sua innocenza dal Ministero della Magia.

Attraverso uno degli infiniti specchi di Mirrorworld, i tedeschi Serious Black ritrovano riflesse le stesse sfighe del bizzarro personaggio dal quale attingono il nome. Il progetto, divenuto rapidamente una band a sé stante, nasceva infatti dall’intuizione del bassista Mario Lochert (Visions of Atlantis), che era riuscito a coinvolgere due stelle del calibro di Thomen Stauch (ex-Blind Guardian) alla batteria e Roland Grapow (ex-Helloween, Masterplan) alla chitarra. A chiudere la lineup, l’interessante voce di Urban Breed (Trail of Murder), il tastierista Jan Vacik (ex-Dreamscape) ed il chitarrista Dominik Sebastian (Edenbridge). Il debut “As Daylight Breaks” (2015), uscito all’inizio dello scorso anno, era una vera bomba di power metal melodico di quelli che non inventano nulla ma danno grandi soddisfazioni, un concept album (parzialmente, almeno) sul tema della luce che trasudava grinta ed energia.
Inizia il tour ed iniziano i problemi. 
Subito si segnalano le defezioni delle due star: Thomen ha problemi alla spalla accusati durante le riprese del video di “High and Low”, non può suonare. Anche Roland Grapow ha problemi, stavolta di udito: una forma particolarmente aggressiva di acufene (tinnitus) gli impedisce di passare troppo tempo con gli alti volumi del palco. The show must go on, la band rimpiazza il chitarrista con Bob Katsionis (Firewind) ed il batterista con Ramy Ali (Freedom Call) ed il tour procede. Poco tempo dopo i due latitanti lasciano ufficialmente la band. Bob confermato alla chitarra, alla batteria viene assunto mister Alex Holzwarth, che ha recentemente lasciato i Rhapsody of Fire proprio per continuare questa esperienza con i Serious Black.
Nel settembre di quest’anno esce Mirrorworld, figlio di questo periodo burrascoso e della nuova lineup.

Il power metal primigenio si evolve in questo secondo lavoro, come spesso accade, in forme più melodiche ed emozionali. Dopo “Breaking the Surface”, un’intro sinfonica fin troppo prolissa, già dall’opener “As Long as I’m Alive” la tanto amata doppia cassa viene a mancare, con l’interpretazione di un sempre più convincente Urban a sostenere un comparto prevalentemente hard rock. Ci pensa la successiva “Castor Skyes” a riportarci ai vecchi Serious (ehr… quelli dell’anno scorso, più o meno) più veloci, powerelli e tastierosi per un brano discreto che passa senza lasciare troppe tracce.
Avanti con le melodie per cercare di strappare le emozioni più profonde dell’ascoltatore, puntando al sentimento raffinato e maturo piuttosto che alla furia adolescenziale. Si alternano così un mid-tempo, “Unbroken Souls” ed una leggera accelerazione per “Dying Hearts”. Le tastiere restano il fiore all’occhiello del lavoro, con un Urban Breed degno di lodi, buoni i solos delle chitarre nella loro esecuzione tecnica, evocative le atmosfere, irriconoscibile invece il carro armato Holzwarth, relegato a svolgere il compitino.
Torna il doppio pedale per “You’re not Alone che con la titletrack “Mirrorworld” costituisce il cuore pulsante del lavoro. I ragazzi continuano a puntare tutto sull’atmosfera, sulle tastiere, sul gioco tra voce e backing vocals, amalgamando in maniera piacevole e convincente metal melodico e qualche incursione power, senza perdere l’ariosità in gran parte delle sezioni. Le strofe sono sempre interessati e complesse, non messe lì “giusto perché prima o poi arriva il ritornello da cantare tutti assieme”. Il risultato è lodevole, ma in certi casi fin troppo lineare: inevitabile in ogni brano, comprese le ultime, la riflessiva “State of My Despair” e l’esplosiva “The Unborn Never Dies”, il momento tranquillo di voce, tappetone di tastiera e rallentamento di batteria che esplode sparando un riff repentino quanto prevedibile.

Mirrorworld ha anche un’altra peculiarità. Ai quaranta minuti scarsi dei nove brani sopra citati, vanno aggiunte ben cinque bonus track dell’edizione digipack, che portano l’ascolto ai più canonici sessanta minuti. Cinque brani che aggiungono parecchio all’offerta. Da un lato abbiamo un disco orfano di una vera e propria ballad nella sua versione standard, ed improvvisamente ecco spuntarne due, pure molto piacevoli: “Emotional Blackmail” e “Goodbye My Angel”. Molto bella anche “Hello Moon”, perfetta sintesi di tastiere, doppia cassa e linea ultra-melodica al microfono. Piacevoli anche “The Life that you Want” e la curiosa “This Machine is Broken”. Insensato questo atteggiamento censorio sull’edizione standard.
I Serious Black si pongono, con questo Mirrorworld, in un ipotetico punto di tensione tra Stratovarius e Masterplan, con un sound moderno e dalla forte impronta melodica. Un passo avanti rispetto al predecessore fatto senza troppa convinzione, tanta qualità tecnica e songwriting buono ma non eccellente, con un picco qualitativo nella performance di Urban Breed al microfono che fa da contrappeso ad un più che sottoutilizzato Alex Holzwarth alla batteria. Così come le due versioni del disco, il voto in calce si pone in un punto di tensione tra l’es freudiano dell’edizione standard (che merita tranquillamente 5 punti in meno) ed il super-io di una delle band power più rappresentative degli ultimi anni. Un po’ di sfiga in meno aiuterebbe.
 

Luca “Montsteen” Montini
 

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