Recensione: Misconception Of Hope
Anche quando si spingono lontano dal death, power e hard rock, generi che probabilmente fondano le loro radici nel DNA della popolazione, gli svedesi non scherzano mai. Nemmeno quando si tratta di entrare nel territorio del grindcore, tradizionalmente affollato da britannici e statunitensi.
Così, dopo undici anni di storia, gli Infanticide giungono al traguardo del terzo full-length (“Extinction Scheme”, 2007; “From Our Cold Dead Hands”, 2010; “Misconception Of Hope”, 2013), abbellito peraltro dalla presenza di tre demo (“Ultra Violence Propaganda”, 2003; “Global Death Sentence”, 2003; “Promo 2005”, 2005) e tre EP (“Lunacy”, 2004; “We Are The Enemy”, 2006; “Sonic Punishment”, 2009) .
Anche se la durata di “Misconception Of Hope” è più o meno quella di un EP, i diciotto minuti di inferno sonoro scanditi dalle diciannove song sono talmente concentrati da rendere l’ascolto simile, per affaticamento acustico, a quello, appunto, di un album vero e proprio. Song che, obbedendo all’ortodossia grind, vanno dai pochi secondi di “Final Unrest” al minuto e tre quarti di “Monokrom Vardag”; ribadendo una volta di più il concetto che un’opera di grind non debba essere assolutamente gustata canzone per canzone ma, al contrario, sorbita nella sua interezza. Come se l’opera stessa fosse un unico brano composto da numerosi intermezzi, legati da un unico filo conduttore sia in termini di musica, sia per quanto concerne l’argomento dei testi.
Operazione che i Nostri svolgono senza alcuna difficoltà, dall’alto di una tecnica esecutiva di prim’ordine e di un’esperienza non da poco. “Misconception Of Hope”, difatti, scorre via con scioltezza e uniformità, senza scossoni e/o soluzioni di continuità stilistiche. La forza messa in campo è enorme e l’impatto sonoro è travolgente, delineato dai micidiali riff segaossa di Johan Malm e dalle stordenti valanghe di blast-beats sputate dalla batteria di Kristoffer Lövgren. Buona, peraltro, la prova sia di Kristofer Jankarls al basso, che romba di continuo senza fermarsi mai un attimo, e di Simon Frid, bravo ad alternare screaming folle a growling cavernoso. La Willowtip Records, poi, ci mette del suo regalando al platter un suono pieno, pulito e ricco di groove; consentendo a chi ascolta di discernere con facilità ciascuna delle componenti dell’Infanticide-sound.
Tutto bene, quindi?
No: nonostante quanto di buono siano in grado di mettere su un disco, i quattro figuri di Gävle non riescono ad aggiungere nulla a quanto non sia già stato sviscerato da centinaia di formazioni che masticano grindcore. Certamente non bisogna aspettarsi chissà quale tocco di originalità, o passo evoluzionistico, contaminazione, progressione da uno schema di partenza che, per definizione, appare piuttosto rigido e quindi poco restio a uscire dal suo guscio. Stringi stringi, il grindcore è un genere che fa dell’immediatezza compositiva il proprio principale segno caratteristico. Tuttavia, alcuni ensemble dell’Est europeo (Antigama in primis) hanno mostrato che apportare delle variazioni interessanti a tale schema rimanendo comunque nel genere è possibile. Talento che, gira e rigira, non pare baciare Frid e compagni, intrappolati in un cliché immutabile nei contorni e ferreo come l’acciaio. Con che i famigerati diciotto minuti di durata del CD fanno presto a tediare giacché, oltre alla tremenda energia erogata, gli Infanticide non riescono a lasciare il segno a causa di una grave e, forse endemica, mancanza di personalità.
Salvataggio in corner, solo, per la lezione di professionalità impartita comunque dalla band e, come detto, dalla bontà della fase realizzativa.
Daniele “dani66” D’Adamo
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