Recensione: Miserere
Dietro i Lovecraft Sextet, c’è la mente e l’arte dell’olandese Jason Köhnen, artista poliedrico dalla pluriennale esperienza, e Miserere è l’ultima fatica.
Il titolo dello stesso è piuttosto emblematico, perché il Miserere è il nome del più noto dei sette salmi penitenziali e che viene recitato in circostanze di dolore o durante le cerimonie funebri. L’oscurità che pervade l’opera è intuibile anche dall’artwork, il cui stile ricorda molto Caravaggio: si tratta di Kathleen, del celebre ritrattista inglese David Jagger. Ben lontano dalla notorietà e dai colori del ritratto di Robert Baden-Powell, Kathleen è la raffigurazione di una donna afflitta dal dolore, con un colorito rosso, attorno agli occhi, che potrebbe far pensare che la stessa, straziata dal dolore, abbia appena finito di piangere.
In effetti, l’album è molto oscuro, e tetro, abbina luci ed ombre; l’ésprit dello stesso ricorda quello dell’arcano XVIII, la Luna: un sentiero buio e tortuoso, rischiarato dalla tenue luce della luna e minacciato da alcune fiere che si nascondono nell’oscurità. E’ un continuo gioco tra luci ed ombre e generi diversi. Bisogna trascendere le etichette di genere, per Miserere, perché sarebbe un po’ come disquisire sul sesso degli angeli: troppo ambient per essere avantgarde, e troppo oscuro per essere ambient. Contrabbasso, chitarra, organo, sassofono e violoncello costituiscono la struttura portante del disco; apprezzabile l’alternanza di voci tra la soprano Lilian Tong ed il growl di Dimitris Gkaltsidis: questi avvicendamenti contribuiscono a dare alla voce il carattere di strumento che fa pendere l’ago della bilancia verso l’oscurità o verso la luce.
Un disco completo e maturo, elegante e sensuale, che gioca sul dualismo e la contrapposizione: un accattivante ossimoro musicale, da ascoltare in una buia notte d’autunno, magari sorseggiando un buon bicchiere di vino, al chiaro di luna.