Recensione: Monolith

Di Stefano Burini - 27 Ottobre 2012 - 0:00
Monolith
Band: Sylosis
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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75

Evoluzione nel segno della tradizione: quante volte questo genere di slogan ci viene propinato al fine di darci in pasto l’ennesima new sensation che nella maggior parte dei casi poco ha del passato e ancor meno del futuro? Troppe. Eppure, per una volta, una frase usata ed abusata come questa potrebbe riuscire a riassumere in cinque semplici parole l’essenza del sound di un gruppo ancora piuttosto giovane e di cui, alla luce dei  positivi riscontri del precedente “Edge Of The Earth” e del nuovissimo “Monolith”, sentiremo con ogni probabilità parlare nel prossimo futuro: i Sylosis.

Provenienti dalla contea di Berkshire, questi quattro ragazzi inglesi capitanati dal mastermind Josh Middleton, voce e chitarra solista, propongono un thrash/hardcore metal modernissimo sul piano dei suoni, degli arrangiamenti e delle soluzioni melodiche quanto con i piedi ben piantati nella tradizione dal punto di vista del riffing e di svariati passaggi srumentali di discendenza decisamente old school. Per certi versi un nome cui i Sylosis potrebbero essere accostati  è quello degli ultimi Machine Head, furiosi ma nel contempo melodici quando non addirittura introspettivi.

Il paragone sorge spontaneo anche e soprattutto a causa dello stile di canto di Middleton, per buona parte del tempo impostato sulle tonalità di un growling espressivo e non troppo esasperato che mostra più di qualche punto di contatto con quello tipico di Robb Flynn. Non è tuttavia il caso di immaginarsi una band clone dei Machine Head: le somiglianze, se si eccettuano alcuni punti di tangenza accennati poc’anzi, si mantengono più su un livello concettuale ed attitudinale ed anzi, fin dal primo ascolto di “Monolith” si percepisce fortissima la personalità dei Sylosis del 2012 e della loro musica, spesso in miracoloso equilibrio tra modern thrash, speed metal, hardcore e qualche tentazione di matrice melodic death dalle parti dei penultimi In Flames.

“Out From Below” entusiasma fin da subito con il suo thrash/speed metal attack, il cantato arcigno e le scorribande delle chitarre soliste, tutto nella miglior tradizione degli anni ‘80 ma con i suoni e la potenza del presente, tuttavia è dal minuto 5:00 in poi che scopriamo ciò che di più “nuovo” e caratteristico hanno da offrire i Sylosis. Digressioni melodiche inattese, grande lavoro delle chitarre a delineare atmosfere marziali degne di una colonna sonora e un cantato che non vai mai fuori dalle righe pur mantenendo una grande dose di aggressività. Con “Fear The World” i britannici osano ancora di più sul piano delle aperture melodiche e delle progressioni strumentali mentre nella successiva “What Dwells Within” si percepisce in maniera molto marcata l’ombra degli ultimi Machine Head, soprattutto per quanto riguarda il riffing e l’inserimento del primo assolo, ma è di nuovo il finale a regalare brividi veri grazie al cantato “clean” di Middleton e alle superbe evoluzioni chitarristiche, sorrette dal drumming tribale di Rob Callard. Tale schema viene ripreso in maniera abbastanza fedele anche su “Behind The Sun”, una sorta di “traccia gemella” della precedente con la quale quest’ultima perde tuttavia il confronto in termini di freschezza e riuscita.

“The River” è forse la perla di “Monolith”, il brano più emozionante e riuscito, nel quale aggressività thrash/speed e ricerca melodica strumentale raggiungono un bilanciamento notevole e di grande effetto. Il solo di chitarra che si libra in volo intorno al minuto 3 e 20 fa sognare ad occhi aperti ed il modo in cui i Sylosis gestiscono l’alternanza di questi due poli opposti è segno di grande maestria. Con la title track gli inglesi decidono di mostrare i muscoli, puntando questa volta su un riffing globalmente  più cadenzato, pronto a esplodere da un momento all’altro in intense impennate di violenza ad alta velocità, eppure è di nuovo con gli stacchi atmosferici che si raggiungono le più elevate vette emozionali.  

“Paradox” è l’occasione per mostrare qualche variazione al canovaccio usato finora e Middleton, Bailey e compagnia ne approfittano per incastonare uno spettacolare refrain degno degli In Flames di inizio millennio su una solidissima impalcatura a base di thrash futuribile e melodic death. Si ritorna a mitragliare del thrash/speed ad altissima velocità con “A Dying Vine” e si  rimane, ancora una volta, ben impressionati da passaggi strumentali congegnati con perizia e in grado di palesare in più d’un’occasione anche la devozione per alcuni tipici stilemi dell’Heavy Metal più classico, quali il ricorso a lunghe sequenze affidate alle chitarre armonizzate. E, pur con i suoni dei giorni nostri e il contrasto creato dalle vocals aggressive e imperiose di Middleton, anche “All Is Not Well” è in sostanza un brano di heavy metal piuttosto canonico, sia nel riffing che nella struttura-canzone, e in generale privo di particolari lampi, pur nel suo inappuntabile “mestiere”. “Born Anew” alza invece i torni e ritorna in territori thrash oriented, ma l’impressione è che, pur sfoggiando quest’ultima l’ennesimo assolo di grande caratura, rispetto alle prime sei-sette tracce di “Monolith” con queste ultime i Sylosis abbiano un po’ mollato la presa e riciclato alcune idee già usate in precedenza senza aggiungervi un vero e proprio colpo da K.O. 

Ora toccherebbe al gran finale, o supposto tale, affidato, ad “Enshrined” riportare l’album sugli stessi livelli di quanto ascoltato fino ad “A Dying Vine”: si era accennato in precedenza alle progressioni strumentali, uno dei punti di forza di questa ancora giovane band, e di fronte ai diciannove minuti abbondanti dell’ultima traccia, non possono che tornare alla mente le suite chilometriche dei grandi maestri del prog, rock o metal che sia. Ed è qui che i Sylosis mostrano una certa supponenza nel propinarci con una quindicina d’anni di ritardo una canzone divisa sostanzialmente in due movimenti intervallati da svariati minuti di silenzio, come capitava ai tempi di quei mattacchioni degli Shadow Gallery  di “Legacy”: il primo all’insegna di quell’heavyt/thrash moderno già ascoltato finora in tutto “Monolith” senza particolari lampi e, preso a sé, tutto sommato superfluo, il secondo una sorta di ghost track acustica degna del miglior Eddie Vedder solista, totalmente avulsa dal resto. Un accostamento in teoria interessante e coraggioso, così azzardato da far pensare che a un certo punto sia partito per caso un brano di “Into The Wild” infilatosi chissà come nel disco; con ogni probabilità, con una confezione più fruibile l’idea poteva risultare più interessante e godibile, tuttavia, con una declinazione in questa forma il retrogusto che rimane è più quello amarognolo dell’occasione mancata.

Fruibilità, si diceva, certamente l’aspetto in cui i Sylosis devono ancora migliorare e trovare la quadratura del cerchio, perché per quanto concerne il resto, sul lato idee e men che meno su quello strumentale c’è ben poco da obiettare alle capacità di questa band inglese. Il vero nodo, non da poco, sarà in futuro mettere a fuoco in maniera più efficace idee quasi sempre azzeccate e valorizzarle appieno andando a sfrondare laddove la tendenza è quella a perdersi in un labirinto certamente afafscinante ma alla lunga anche un po’ logorante. Allora sì che ci troveremo di fronte ad una band davvero eccezionale e in grado di diventare una stella di prima grandezza nel panorama dell’heavy metal moderno, nel frattempo godiamoci “Monolith”, un disco che tiene fede al proprio nome e in ogni caso in grado di regalare emozioni forti per larga parte della sua durata.

Stefano Burini

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