Recensione: Monotony Fields
“Il tempo è relativo, il suo unico valore è dato da ciò che noi facciamo mentre sta passando.”
Albert Einstein
Tremilanovecentotredici giorni: esattamente dieci anni, otto mesi e diciannove giorni. Questo il tempo che è stato necessario agli Shape of Despair per regalare al proprio pubblico un nuovo album in studio ufficiale, se si esclude l’EP Written in my Scars. Quasi undici anni fà, anche se non sembra vero le nostre vite quotidiane erano completamente differenti, pensateci bene: il mondo occidentalizzato ha divorato se stesso per progredire, o almeno è ciò che crede, verso un obbietivo indefinito mettendo a rischio l’umanità stessa. Tutto modellato, plasmato, rettificato, incanalato in un vortice di frenesia interiore che distrugge ed amalgama in un meltin’ pot primordiale, quasi alla pari del big bang, tutto, per dare vita alla società del 2015. Monotony Fields ci ricorda come il tempo passa inesorabilmente per tutti gli esseri umani, ma la musica, se vissuta con l’animo eterno del sentimento è un ghiacciaio perenne della memoria postuma, non sbiadisce mai; le rughe non intaccheranno mai il nero abisso che si incanala lungo il destino di una band che suona col cuore. Un oblio spaziotemporale svuotato di ogni ragion d’essere per creare un flusso immortale, tempo vissuto o probabilmente anche solo momenti trasparenti di infinita schiavitù alla musica stessa. Una polaroid digitalizzata di chiaroscuri dove gli Shape of Despair prendono nuovamente la strada lasciata indietro tempo immemore, cambiano cantante (Pasi si è allontanato definitivamente) ma l’approccio rimane immutato, la fotografia su quella polaroid è la stessa, solo le luci del giorno vitale del gruppo mutano, oggi possiamo confermare in via definitiva che il tempo per questi finlandesi non è giunto al tramonto, risplende in alto più che mai di una vibrante luce sfibrata di una penombra notturna sepolcrale.
Tanta era l’attesa per questa perla, che emersa dal profondo a qualche mese di distanza dall’uscita sul mercato, non smette di confermare giorno dopo giorno quanto alta sia l’asticella posta per poter delineare un ipotetico disco doom dell’anno. Questo oggettivamente poco importa. Essere primi, secondi o terzi risulta futile quando si diventa immortali; Monotony Fields è uno di quegli album che non svaniscono facilmente, posto di spalla in mezzo agli altri dischi della collezione ti chiama a sè, impossibile non premere play, un circolo vizioso infame che ti contagia quotidianamente. Monotony fields è la fonte da cui abbeverarsi per riporre il mondo in “modalità aereo” dove nessuno ti distoglie dagli echi di queste funeste note, gli schermi non si accendono mentre puoi finalmente lasciarti cullare nell’io più profondo.
Cos’è cambiato in questi infiniti giorni della musica della band? Cosa porta di nuovo il quarto full-length ufficiale? Se ascoltato distrattamente e superficialmente quasi non ci si accorge dei piccoli dettagli che costellano ogni traccia, si potrebbe pensare ad un copia ed incolla dei soliti riff cadenzati di matrice finlandese disposti in ordine differente, peccato che non sia così. Tutto oggi risulta più etereo, effimero e sulfureo. Una costante dicotomia tra la dolce raffinatezza dei passaggi suggellati in maniera altisonante dalla band e quei testi così agghiaccianti, da togliere l’ossigeno ad ogni essere vivente.
“If I was ever alive
Or existed
I felt only the night
Move inside me
The falling of shadows
That never relinquish
Or fly away”
Sette sono le canzoni nuove, Written in my Scars è la riregistrazione di quella traccia presente nell’EP omonimo di cinque anni addietro, sette canzoni lente soffocanti e costellate da una dinamicità che solitamente non fa mai capolino tra le fila di un qualsasi disco, di una qualsiasi band, in una qualsiasi parte del globo terracqueo che cerca di cimentarsi con un genere tanto ostico quale il funeral doom. Il concetto di tempo è legato a Monotony Fields come il pargolo appena nato alla madre che lo abbraccia subito dopo il parto, i ruoli si rivoluzionano ed il disco stesso prende il sopravvento sui lunghi settantaquattro minuti proposti. Il tempo si ferma, si dilata e chiede aiuto agli Shape of Despair per poter riiniziare la sua corsa all’infinito, un buco nero che avvolge le interconnessioni createsi dal disco diventano mani che ti afferrano giù, attraverso il regno di Caronte. Reaching the Innermost accoglie attraverso le tastiere l’ascoltatore e prima di poter assaggiare i primi growl di Henri bisogna attendere cinque minuti lenti e snervanti per acclimatarsi, posizionare il fondoschiena su un letto di spine che lentamente di bucano la pelle. Il suo è un cantato profondo, ricolmo di verità, sentito nelle viscere che viene magistralmente coadiuvato dall’angelica Natalie, personaggio secondario, una delicata antagonista necessaria riuscita dell’opera. Senza la combinazione delle due voci qualcosa sarebbe stato lasciato indietro e quest’album non avrebbe mai assunto questa infinita grazia che lo sovrasta dall’inizio alla fine; entrambi i cantanti si aiutano correndo paralleli un accanto all’altro su mondi distanti, sono le due eliche del DNA che formano il genoma di Monotony Fields. Jarno e Tomi han scritto il disco della vita probabilmente, quando la luce sembrava spenta e debole in lontananza, con il tunnel sempre buio ed ostico da svalicare, loro han tirato fuori le forze per portare a noi mortali quell’album che ferma il tempo, lo cesella in una fantasmagorica cornice che circoscrive i tuoi malesseri, le tue speranze perdute, i sogni infranti, la mediocre ipocrisia del ceto medio moderno, la corsa all’irraggiungibile, la perdita dei valori, la morte dell’uomo in quanto tale. The Distant Dream of Life, The Longing, The Black Journey sono inni al decadentismo moderno che sfiorano il palato del sublime per accedere al tuo incubo peggiore: la verità che non si ha il coraggio di ammetere neppure a se stessi. Come descrivere queste canzoni se non chiedendo di ascoltarle? Raccontare gli Shape of Despair è impossibile; loro come moltissime delle band di primo ordine nate in Finlandia quali Skepticism, gli immortali Thergothon, i Profetus o i Colosseum rendono vane le speranze di una facile descrizione di ogni loro disco. Silenzio.
Mi allontano, nascosto nella penombra ritiro ogni altra parola su questo scritto avendo già speso più tempo di quanto mi servisse per descrivervi uno degli apici del doom, del funeral doom di quest’anno e degli anni a venire, probabilmente. Gli Shape of Despair ci han fatto un regalo, senza volerlo han fermato il tempo, raccolto la lacrima nell’iride dell’occhio che si era scordata di uscire allo scoperto posandola sulla foglia al mattina quando l’alba racchiude in pochi millimetri la pura bellezza. Monotony Fields come avrete capito è un grandissimo album che si subisce senza proferir parola. Potranno anche metterci altri dieci anni per un nuovo capitolo, ma se la qualità rimarrà la medesima, saremo tutti li ad attenderli per applaudirli.
“Shattered my image
Burned my will
From
Now on
There is only one
Kind of silence ahead”