Recensione: Mons Veneris

Di Stefano Ricetti - 17 Luglio 2023 - 9:56
Mons Veneris
72

Avevamo lasciato i Venus Mountains nel 2018, con l’album Black Snake, in realtà recensito su queste stesse pagine truemetallare a sfondo nero l’anno passato.

Un disco maturo, ottimamente prodotto con al proprio interno due perle che più perle non si può quali “Wake Up Call” e “You Make Me Feel”, un’accoppiata di pezzi lenti e intensi che, come già scritto, se fossero finiti sotto le sgrinfie di Aerosmith, Whitesnake o del Bon Jovi dei bei tempi sarebbero rimasti in heavy rotation un po’ ovunque per un bel pezzo. Altri brani killer, sempre presenti su Black Snake, rispondevano ai nomi di “RNR Burning”, “Down To The Rainbow” e “Rock City”.

Ovvio, quindi, che le aspettative nei confronti della band bresciana, che per inciso negli anni ha suonato in Giappone, Inghilterra, Svizzera, Olanda, Russia, Spagna, Francia, Usa e naturalmente Italia fossero molto alte, nel momento in cui venne annunciata l’uscita di Mons Veneris, il loro nuovo album targato 2023.

A differenza del predecessore, quest’ultimo vede la luce in regime di totale autoproduzione, a testimonianza del fatto che, tristemente, non è importante il mazzo che ti sei fatto sino a ieri, nel momento in cui poi devi concretizzare e ti rendi conto che se non investi su te stesso non vai da nessuna parte. Situazione comune al 99% delle altre band, peraltro, nonché specchio dei tempi.

La formazione, a confermare la coesione da sempre dimostrata sul campo ma soprattutto dal vivo dai Venus Mountains, è la stessa del disco prima, ossia: Stefano “Frax” Pezzotti – chitarra, voce, Marco “Sexx Doxx” Dossi – basso, Morris “Morris” Archetti – batteria e Michele “Mick” Lodrini – chitarra. Il Cd si accompagna a un libretto di otto pagine con tutti i testi, le immagini dei singoli componenti, le note tecniche di prassi nella penultima facciata per chiudere con una foto d’insieme del gruppo a rimirare un’astronave.

Mons Veneris consta di cinquanta minuti di musica declinati attraverso dodici pezzi di hard rock robusto e, sin da “Our Spacecraft” posta in apertura appare netta la virata dei Venus Mountains verso un approccio generale molto più rock’n’roll e scanzonato benché, va precisato, l’attitudine festaiola sia sempre stata al centro di tutto quanto fatto dai bresciani sino ad ora.

Il disco scorre bene, senza dubbio, ma si sente terribilmente la mancanza di pezzi da 90 della portata di quelli citati a inizio recensione anche se va rimarcata la qualità di canzoni come  l’intensa “Lioness”, poi “Locomotive”, un tributo bello e buono agli Ac/Dc, così come la cover ipervitaminizzata di “Blue Suede Shoes” di Elvis Presley. “It’s Time For Vodka” richiama fortissimamente i Kiss e, per chiudere, risulta sufficientemente riuscita anche l’acustica “Until We Meet Again”, posta in fondo al lavoro.

A sgombrare il campo da qualsivoglia dubbio, comunque, nonostante non siano riusciti a replicare i fasti di Black Snake i Venus Mountains con Mons Veneris hanno confezionato un disco che fa mangiar la polvere a una buona fetta di band hard rock in circolazione.

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti   

 

 

 

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