Recensione: Moonflowers
Non avevo intenzione di scrivere nuova musica prima di essermi mosso verso la giusta direzione nella mia vita, ma alla fine è stato un processo naturale a cui non ho potuto resistere. Qualcosa è emerso dal vuoto delle mie lunghe notti solitarie ed alla fine scrivere queste canzoni mi ha fatto pensare molto ai fiori di luna che sbocciano nelle ore più buie: da qui il titolo “Moonflowers“.
Approcciarsi ad un nuovo lavoro degli Swallow the Sun, soprattutto recentemente, non è impresa facile per chiunque abbia seguito le vicende personali del mastermind, riversatesi inevitabilmente nella produzione della band, e non solo. Sin dalla morte di Aleah, compagna di vita e d’arte di Juha Raivio – indubbia colonna portante della formazione – l’opera di quest’ultimo ha avuto come ispirazione e fine l’elaborazione del personalissimo lutto. Si pensi al progetto Hallatar, sgorgato da una sessione appassionata e disperata, un palliativo per scansare l’ideazione suicidaria. Ed ancora, si pensi ai vari progetti a nome Aleah, in cui sono stati operati sistematici recuperi e rielaborazioni del materiale da lei lasciato incompiuto. Sin dall’annuncio della release del nuovo lavoro è dunque stato chiaro che la mano di Raivio fosse intimamente mossa da un’esigenza espressiva pura ed autentica. Ed è questo stesso afflato che in qualche modo terrorizza il recensore: se da un lato vi è difatti l’esigenza critica di sondare pregi e difetti di un lavoro nella maniera più obiettiva possibile, dall’altro si ha la consapevolezza di maneggiare qualcosa di estremamente personale ed intimo. Che sia tale, è evidenziato con certezza dalla luna dell’artwork, dipinta -in originale- con il sangue dello stesso Juha.
Il nodo gordiano può essere tuttavia dipanato soltanto immergendosi nell’ascolto di Moonflowers. Procediamo, dunque. Il brano di apertura, Bloom in Misery, rende immediatamente chiaro lo spirito del disco; chiunque sperasse di trovarsi dinanzi ad un lavoro che abbia nelle corde Plagues Of Butterfly o Songs from the North I, II & III – per la sottoscritta l’apice compositivo della formazione – dovrà rassegnarsi. Il sound è difatti, sulla scorta di un’evoluzione delineata timidamente da New Moon in poi, e manifestatasi chiaramente nel precedente lavoro, decisamente più etereo e lontano dal doom death delle origine. Troviamo difatti un cantato in pulito delineante sezioni quasi anathemiane, tanto ipnotiche quanto soavi, alternate a sezioni in growl, in cui il riffing si fa più robusto e sostenuto dalla sezione ritmica. Onnipresenti gli archi, che donano pathos e un afflato intimistico ad un brano superbamente realizzato. Segue il dittico Enemy e Woven Into Sorrow, brani resi noti quali singoli precocemente. Se la prima sostiene l’andamento delicato e melodico della opener, la seconda tende iperbolicamente -senza tuttavia giungere a sfiorarli mai del tutto- al sound delle origini, mediante un approccio più roccioso e granitico che tuttavia non intacca mai la capacità, da parte della band, di dar luogo ad armonizzazioni riuscitissime e di grande impatto. Anche nella successiva Keep Your Hearth Safe From Me si ravvisa un riffing maggiormente dinamico e graffiante, che tuttavia cede il fianco a soffuse chitarre in clean delineanti dissonanze quasi opethiane, su cui si staglia un filtrato ed evanescente cantato in pulito. Similmente a quanto avveniva nei brani precedenti, si ravvisa una dinamica intrigante tra le due anime del cantato di Mikko Kotamäki , in grado di destreggiarsi ottimamente in entrambi i registri. Pur dunque essendo la forma canzone qui dipanantesi piuttosto simile a quanto realizzato con il precedente When a Shadow Is Forced into the Light , si ravvisa una maggiore coesione tra le varie sezioni. L’ispirazione è qui diretta all’animo dell’ascoltatore con maggior padronanza della nuova sintassi che gli Swallow the Sun hanno scelto di fornire al proprio sound. I maestri giocano dunque di nuovo con il loro amalgama, trovando un compromesso persino più soddisfacente. E anche se, in qualche modo, sembrerebbe quasi che la catarsi rappresentata da No Stars Upon the Bridge abbia risucchiato le influenze più oscure e pesanti della penna di Raivio, il nuovo corso dedicato alla luce – quella luce spinta attraverso le tenebre, esplicata nel titolo del lavoro precedente – non appare affatto più debole o meno convincente. La poetica degli Swallow the Sun, è stata un tempo descritta come l’espressione più pura del dolore in musica, ed anche qui tale afflato non viene meno. Unica nota lievemente stonata è, ad opinione della scrivente, la ballad che ospita Cammie Gilbert degli Oceans of Slumber, fin troppo languida e prevedibile. Ciò tuttavia non pregiudica la qualità altissima di un lavoro sgorgante, come si è detto, dall’abisso dell’anima dei Nostri.
Ancora una volta, possiamo affermare con soddisfazione che gli Swallow the Sun siano incapaci di licenziare un brutto lavoro.