Recensione: Moonglow

Di Luca Montini - 16 Marzo 2019 - 19:00
Moonglow
Band: Avantasia
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2019
Nazione:
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85

Sotto lo splendore della luna più chiara e luminosa, la metal opera torna in scena. L’ispirazione del mastermind e creatore del progetto Avantasia Tobias Sammet ci porta ancora una volta in una terra lontana ed onirica, dove le categorie della ragione non hanno lo stesso potere che attanaglia il mondo vero, quasi disciolte sotto un insolito e fulgido candore lunare. “Moonglow” è innanzi tutto un racconto che si dipana nella ricerca estrema ed incessante del suo piccolo e debole protagonista di un motivo per esistere e continuare andare avanti – un amore mai appagato, un sentimento di eterna incompletezza e di errabonda ricerca di un posto nel mondo, in una decadente ed oscura ambientazione vittoriana, ma anche nei remoti recessi del suo universo interiore, in un turbine emotivo perfettamente dipinto dai colori fatati Alexander Jansson nell’artwork del disco. Tante passioni dell’anima vissute tutte assieme, sprigionate dalle melodie tipicamente avantasiane e dai testi del buon Sammet, in dialogo maieutico con i numerosi personaggi (interpretati dalla solita costellazione di star del metal) che incontrerà nella sua avventura. La narrazione passa attraverso liriche estremamente intime e ricercate come da tradizione per il sempre più istrionico genio di Fulda, in perenne bilico tra Tim Burton ed il romanzo gotico, tra il power metal più epico e la semplicità delle melodie più cheesy provenienti dall’hard rock ottantiano. 
Il songwriting di “Moonglow” inizia a prendere forma due anni fa, terminato il tour precedente degli Avantasia. Stavolta con l’inedito vantaggio per Tobi di non dover produrre nessun nuovo disco con gli Edguy, a parte il celebrativo “Monuments” (2017) contente una manciata di inediti. Ce lo immaginiamo in compagnia del suo solito buon bicchiere di vino rosso, il nostro coraggioso compositore, mentre dalla sua penna l’opera inizia a prendere forma senza timori, incurante del giudizio dei critici, delle etichette e del pubblico. Così si scrivono i capolavori.

Hear the call of the bright moon above
Outside of your window
Would you follow me into a world
Where reason doesn’t pertain

Degno successore del già ottimo “Ghostlights” (2016), a sua volta preceduto da “The Mystery of Time” (2013) ed inserito all’interno della medesima ambientazione letteraria, “Moonglow” sembra prendere le mosse dai capitoli precedenti pur mantenendo i suoi aspetti peculiari, sempre su livelli altissimi. A partire dall’opener “Ghost in the Moon”, una lunga suite orchestrale ricca di arrangiamenti che lambisce i dieci minuti di durata, cantata dal solo Sammet: l’inizio di una lunga avventura, un piccolo e pavido spettro alla ricerca di sé prima che sorga il sole “Lost in this world – with no place to go / Awaiting the night to yell a prayer up to the starlight / Veiling boon: Ghost in the moon”. 
Dopo aver dato la prova di cavarsela alla grande anche in autonomia, nella successiva “Book of Shallows”, Tobi alza l’asticella con un altro pezzo da novanta. La virata verso il metal più duro è evidente dal drumwork deciso e furente di Felix Bohnke coi suoi blast beat, e dalla poesia ci troviamo catapultati in un’arena che pullula di eroi mitologici perfettamente armonizzati nei rispettivi interventi: Hansi Kürsch (Blind Guardian), Jørn Lande e Ronnie Atkins (Pretty Maids) che assieme a Sammet ci trasportano nell’agone oltre i confini del thrash metal, con la voce di Mille Petrozza (Kreator) che d’improvviso irrompe con inaspettata naturalezza con il suo stile più aggressivo a menare fendenti. Ruggente.
Viene il turno della ballata, con l’esordio nella famiglia Avantasia di Candice Night, moglie di un certo Ritchie Blackmore (Deep Purple) e compagna di avventure del menestrello nel gruppo folk rinascimentale Blackmore’s Night dal lontano 1996. Siamo innegabilmente al brano più radiofonico del lotto, la titletrack “Moonglow”, che in un duetto al chiaro di luna che ricorda un po’ la “Moonlight Shadow” di Mike Oldfield affascina e conquista. Peccato per il minutaggio risicato, dettato dai tempi di un ascolto da singolo ‘mordi e fuggi’ che costringe la composizione ad una serie di mattoncini talvolta non perfettamente incollati, con sezioni che avrebbero meritato ancora più respiro prima di transitare l’una sull’altra.
Primo singolo estratto dal disco, con i suoi undici minuti abbondanti “Raven Child” è a parere dello scrivente uno tra i pezzi più belli dell’intera discografia degli Avantasia. Un brano rigoglioso, epico, sognante, nostalgico, barocco nella sua struttura ma assolutamente universale nelle emozioni che riesce a trasmettere. La voce del bardo di Krefeld Hansi Kürsch apre assieme all’arpa, per un brano ancora pullulante di orchestrazioni e sinfonie da ascoltare più volte per cogliere ogni sfumatura cromatica, nello struggente baratro di una creatura debole e deforme in attesa infinita di un amore soffocato che arde tra luce e tenebre, ossessionato dalle voci interiori in un crescendo spezzato nella parte finale da un duetto senza soluzione di continuità tra i vocalizzi del vichingo buono Jørn Lande e Tobias Sammet che sembra volare con scioltezza e a ritmi sostenuti su tonalità altissime. Brividi.

 

Leggerissimo calo per “Starlight”, con Ronnie Atkins, altro brano che in un disco qualsiasi potrebbe tranquillamente entrare come singolone trascinante, paragonato al gigante che l’ha preceduto sembra quasi voler decomprimere la tensione, completamente smorzata poi dal lentissimo “Invincible”, stavolta con Geoff Tate (ex- Queensrÿche) – un momento più cupo per attraversare dalla fragilità ad una presunta invulnerabilità del protagonista, in un riscatto titanico cantato nel ritornello voce e pianoforte: “Throw yourself into the waves /  Let ‘em roll and carry you away into the sea / To wash off all fragility / Throw yourself into the ocean / Jaded, blunt, invisible…”, che quasi ricorda il rigenerante tuffo nel mare di Bruce Dickinson nella sua “Tears of the Dragon”.
Tate protagonista con una performance stellare nel pezzo più progressive “Alchemy”, ancora con un refrain trascinante, alla quale segue il “tutti sul palcoscenico” di “The Piper At The Gates Of Dawn”, con Sammet, Atkins, Tate, Lande e Catley (Magnum) a spartirsi la scena. Due brani per quindici minuti che sembrano volare.
Introdotto e poco utilizzato nel brano precedente, è finalmente il turno del mitico Bob Catley, che si prende il meritato spazio in “Lavender”, brano più leggero e sbarazzino con un refrain che ti si stampa in testa e non ne esce più – al profumo di lavanda. 
La sensazione, giunti all’ultimo pezzo, è che manchi ancora qualcuno. Uno che dopo aver inventato assieme ai colleghi Helloween il power metal, ha riscoperto questo genere proprio con gli Avantasia dopo un lungo periodo lontano dalle scene. Mentre cori e tastiere sollevano lo spirito per il momento finale, ecco finalmente il momento di Michael Kiske, che irrompe con la sua inconfondibile ugola altissima all’epilogo della vicenda.
Non è proprio finita qui, perché il disco contiene ben due bonus track. La prima è “Maniac”, cover di Michael Sembello dal film Flashdance (1981). La seconda è “Heart”, brano inedito ispirato dai Journey di Steve Perry: due pezzi in sequenza che stanno lì a rimarcare la devozione del mastermind della metal opera e del suo equipaggio per gli intramontabili anni ’80.
 
Moonglow” è l’ennesimo miracolo artistico di Tobias Sammet: un vulcano inesauribile, capace di affascinare e conquistare con un’inclinazione alle melodie ormai divenuto marchio di fabbrica del progetto Avantasia, prodotto ed arrangiato in maniera impeccabile, forte di un gruppo di lavoro coeso ed affiatato assieme agli storici compagni di squadra che rispondono ai nomi di Sascha Paeth e Michael “Miro” Rodenberg  (senza dimenticare Felix Bohnke alla batteria) e con la solita lineup stellare a sublimare la bellezza di un progetto ancora insuperato – anche in sede live, attesissimi all’Alcatraz di Milano il 31 marzo. Manca forse un po’ il Kiske dei tempi d’oro, la cui scarsa presenza su disco è pienamente giustificata dall’impegno degli ultimi tempi con la reunion degli Helloween. Assenza comunque ripagata dalle performance stellari (anzi, lunari!) di gente del calibro di Hansi Kürsch e Geoff Tate, senza dimenticare l’infallibile Jørn Lande. Alla ricerca degli innumerevoli sentimenti e stati d’animo del protagonista esistenzialisticamente gettato-nel-mondo, che in questo disco sono il riflesso di un sentire universale, sotto il candore della luna di “Moonglow” troveremo la nostra strada verso casa o rimarremo intrappolati per sempre nell’ambientazione oscura e straniante ma anche ricca di fascino e mistero generata dalla fantasia di Tobias Sammet – forse il segreto, in fondo, è accettare il proprio destino e le proprie passioni senza timore di restare sospesi tra un mondo e l’altro, tra la rassicurante magia della musica che amiamo e l’imprevedibile alterità del mondo reale.

Time to face what it’s all about
May the waves take you in
A long way from home
You’re out on your own
To crave all alone and alone you’ll realize
Future ain’t what it used to be
And all givens they fall into abeyance
Fall into abeyance

 

Luca “Montsteen” Montini

 

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