Recensione: Moonlover
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?
(Giacomo Leopardi)
Luis Gonzàles Palma, fotografo ed artista guatemalteco, ha sempre voluto stabilire un contatto tra il sogno materiale, quello da sempre basato sulle fondamenta del r.e.m., ed il sogno immateriale. La differenza sostanziale è l’immaginazione come specchio delle memorie vissute, dove ognuno di noi guarda il nulla, ricorda, immagina, sogna ed esamina la struttura dei propri ricordi che nascono silenziosi. “Lune” opera di Palma del 1986 è una creazione forte, evocativa, quasi di condanna verso coloro che immutabilmente non si concedono il delirio del sogno; legati frustrati e sottomessi l’immateriale esce dai pensieri, si confonde col presente per divenire abisso del metafisico. Tutto questo è solamente l’immagine di copertina, pensate solo cosa si nasconde dentro quest’album.
Una seconda prova in studio per questi “finti Cinesi” provenienti dal North Dakota dopo il discreto “Funeral”, che aveva iniziato a far parlare della band nel circolo underground, oggi è a tutti gli effetti una realtà che non merita di passare inosservata. Il nuovo album propone un aumento esponenziale dell’effetto etereo, precedentemente solamente accennato, una miglioria notevole nel comparto vocale e una produzione più raffinata con meno effetto garage. La prima pressata uscita sotto Northern Silence è sold-out da diverso tempo ed oggi la Nuclear Blast decide di metterli sotto contratto, facendo in modo che i nostri riescano ad esporsi ad un bacino più ampio. No tranquilli, il colosso non ha aggiunto alcuna modifica su produzione ed estetica del disco, una volta ogni tanto sono stati in grado di non snaturare le sonorità in essere.
“Moonlover” è un’opera di Palma sotto acidi, un sogno ad occhi aperti dove l’immateriale si districa tra la realizzazione che ciò che stiamo ascoltando non è un sogno, ma solamente immaginazione fatta a musica; l’atmosfera surreale, la gentile violenza come rose spinose tra i fianchi della donna che non riesce a respirare autonomamente se non soffrendo. Un flusso costante tra le note del pianoforte e lo screaming arcigno e depresso, un ululato al vento dove l’incedere porta al morboso desiderio di scoprire cosa si nasconda dietro ogni singolo minuto. Una breve intro in tipico stile horror ci trascina sulle soglie dell’infinito disagio prima che “Golden Numbers”, con i riff zanzarosi e un blast beat terremotante, si conceda all’ingresso della chitarra acustica che sconvolge ogni ipotesi che si aveva in testa precedentemente. Un bagno di luce nelle tenebre più oscure fatto di incubi; a 6:56 il pianoforte ci delinea le note della morte, un requiem moderno in costante dialogo con l’anima di un passato lontano. Nove minuti di dolore prima dell’abbraccio per un lungo addio. “Happyhouse” è ipoteticamente la sintesi dell’evoluzione black metal negli anni post 2000, un incedere lento in mid-tempo con gli screaming in sottofondo, come a decorare una tomba, poi la rabbia furente e l’istinto che esplode prima che un’acustica delizi le note finali. Un sole nero al tramonto mentre tu bruci. La prima parte si contrappone alle successive tre canzoni dove la band cerca un approccio più strumentale e decadente, pregno di quel funereo romanticismo che si inerpica lentamente come edere nei cimiteri. “Beneath The Shade Tree” sono quasi cinque munti di armonia e lacrime; le chitarre che si abbracciano e contorcono per lasciare perdere il concetto del tempo. Con la successiva suite “The Silver Flower Pt.1 & 2” siamo a cospetto della prima parte di quattro minuti anch’essa strumentale, come la traccia precedente, che va in netta contrapposizione alla seconda lunga porzione con le campane ci introducono ad un mondo immaginario. Lenta, depressa e senza scampo ha un mid-tempo che si contrasta alle melodie tipiche di scuola Deafheaven, per modellarsi su canoni ancora più eterei e onirici. A differenza dei primi i Ghost Bath decidono per un approccio che porta verso i limiti della sopportazione; questo è il difetto che non fa sì che “Moonlover” diventi un piccolo gioiello dei tempi moderni: l’essere racchiuso ancora entro certe soluzioni che possono definirsi prevedibili, primordiali idee in fase di sviluppo allo stesso tempo geniali e d’impatto. “Death and the Maiden” in chiusura risulta la traccia complessivamente più violenta e tagliente, pochi stacchi, poche aperture per sei minuti che si chiudono con un fischiettio maligno. La fine del sogno, il risveglio nel buio più profondo e la sensazione di caduta nell’oblio prima di picchiare terra, per tua sfortuna la fine non arriva mai e cadi, cadi, cadi ancora e così sino alla fine.
Come la donna di Palma sulla cover, come Leopardi che parla alla “sua Luna”, come un buio rischiarato dalla luce lontana, come un vuoto ricolmo di dolore “Moonlover” viaggia a vele spiegate lungo le rive della fragilità mentale. Un disco da ascoltare in solitaria, come ogni album che meriti, per un’esperienza singolare e catartica dove le parole servono a poco se non per delineare la sostanza del nulla. Non sarà perfetto, seguirà qualche trend, risulterà troppo “romantico” a qualcuno ed a tratti inaccessibile, ma se sarete in grado si comprendere la dimensione dei Ghost Bath, aprirete porte prima d’ora mai sfiorate.
“Gli incubi peggiori, sono parte della vita ad occhi occhi aperti”