Recensione: Mors Tua vita Mea
Dopo la pubblicazione del suo primo EP (datata 2014), Parris Hyde torna sul mercato con “Mors tua, vita mea”, debut album del musicista milanese, sulla scena Metal italiana ormai da qualche decennio.
Nato artisticamente negli anni 80, con i thrasher Bonecrusher, il biondo frontman successivamente forma i Waywarson (hard rock), producendo dischi quali “Long way home” e “Alone” (2008). Dopo la fine di questo gruppo, Parris Hyde si sente finalmente libero di dedicarsi al progetto che porta il suo nome.
Ed eccoci dunque arrivati al momento di dare il La (o il Sol?) al lettore, con la title-track “Mors tua vita mea”, introdotta da un intreccio di organo e archi di sapore classico, sul quale si incastonano salmi gregoriani in latino, che conferiscono un’atmosfera piuttosto inquietante ancorché suggestiva all’ambiente. Un buon inizio, tanto spiazzante quanto indovinato.
“2ND2NO1” è introdotta da un riff metal, che imprime un ritmo serrato e si disimpegna attraverso stacchi imperiosi e linee vocali tirate all’estremo, con bridge in crescendo e ripresa in accelerazione.
“I killed my wife with a knife” (peraltro già presente nel citato EP) inizia con un motivo ossessivo e martellante, degnamente sostenuto da una ritmica molto veloce. Essenzialmente Metal nei suoni e nell’impostazione strutturale, la song si distingue per un testo ironico, per le linee vocali filtrate e per le ruvide schitarrate, possenti e graffianti quanto basta, sorrette da un timing alquanto veloce e spedito.
La successiva “I love shopping (with your money)” evidenzia un’impalcatura ritmica alquanto rocciosa e, nel complesso, una buona costruzione delle sue componenti, e appare caratterizzata da un refrain di forte impatto, oltre che da un testo spiritoso, nel quale buona parte del genere maschile potrebbe riconoscersi.
Un delizioso arpeggio apre “Life on the line”, che assume presto la sua fisionomia corredata di un notevole impatto strumentale dal groove potente e incisivo, con un assolo di gran classe e una performance vocale sentita e sofferta.
Il pathos domina anche la successiva “Digital dream land”, con un riff orecchiabile a cui fa da contrappunto un tappeto di tastiere, a tinte piuttosto dark e una spruzzata di doom negli stacchi, sempre ben articolati.
“Far away” ha un approccio ammantato di reminiscenze Classic Hard Rock, che però non disdegna un tocco più smaccatamente Heavy nei riff e nel contributo della sezione ritmica. L’assolo di chitarra spicca per un gusto particolare, di chiara ispirazione Old School.
La strumentale “Alone” esordisce con arie assai suggestive, grazie a deliziosi arpeggi di chitarra che si distendono sulle note del synth; in seguito la traccia assume i connotati più netti di una rock ballad di grande spessore e personalità. Questo mid-tempo, familiare e pomposo, colpisce per un gusto alquanto raffinato ed equilibrato, più decisamente “Hard Rock oriented”, con la chitarra che si erge a protagonista grazie a scale indovinate e a impennate acute, sostenute da una linea melodica energica e incisiva.
“The Third Millennium Disillusion” si apre con un riff barocco e ben articolato, che suggella una ripartenza su toni Heavy, con doppia cassa al galoppo e una impostazione decisamente power. Il testo è interessante, dai risvolti sociali piuttosto attuali in quest’epoca in cui pare dominare la follia.
Dopo le bordate Hard&Heavy delle tracce precedenti, le nostre orecchie vengono accarezzate da eleganti arpeggi di clavicembalo combinati con deliziose note di flauto, dallo stile neoclassico: siamo arrivati a “Border of Mexico”, brano di ispirazione rinascimentale che lungo il cammino si irrobustisce grazie alla spinta e all’innesto di certi riffoni dallo spessore ragguardevole. L’assolo della parte centrale è molto ricco e multicolore, tanto da rendere questo pezzo uno degli episodi migliori del disco.
Passando alle ultime tre “bonus track”, troviamo “I killed my wife with a knife – Gothic version”, che attacca con un suono di organo classicheggiante e intenso, affiancato da una voce dai toni malvagi. Tale accostamento conferisce una certa originalità al sound, differente rispetto alla traccia n. 3. Sullo sfondo, il rumore di un temporale è accompagnato da angoscianti note di pianoforte, mentre il ritornello è eseguito da cori sempre carichi di pathos. Il finale, altrettanto coinvolgente, è marcato da lugubri rintocchi di campane.
Sempre nel segno della stravaganza e di una certa sinistra creatività che contraddistingue l’artista milanese, “Metal Bells” propone una versione divertente, in chiave Metal, di canzoni natalizie contenenti liriche sataniche, quali Jingle Bells e White Christmas.
“Fear of the Dark – remix” è una cover in versione abbreviata dell’omonimo capolavoro dei Maiden, di cui il singer lombardo è un indiscusso ammiratore.
Il primo prodotto di casa Hyde ci ha regalato un gradevole excursus negli Anni 80, grazie a una rivisitazione in chiave moderna di suoni e stilemi tipici di un’epoca ben definita, in una genuina miscela di Hard Rock, Metal e Glam, senza rinunciare a un condimento originale (in particolare, nella ricerca di nuove sonorità e nelle componenti humour a tinte black). Lo stile riecheggia modelli ottantiani tipo Dokken, King Diamond, Lizzy Borden per intenderci.
Ottimi sono l’impatto e l’immediatezza che promanano dall’ascolto, mentre sono da sottolineare gli aspetti particolarmente curati della produzione (suoni, arrangiamenti, ambientazioni).
Ci auguriamo, a questo punto, di vedere quanto prima questa band cimentarsi sul palco, per avere una conferma in chiave “live” delle buone impressioni suscitate da “Mors tua, vita mea”.
—-
Prodotto da: Parris Hyde. Registrato presso: “Temple of the Music Studios” – Milano. Mixato e masterizzato presso Tanzan Music Studios – Lodi da Daniele Mandelli con la supervisione di Mario Percudani.