Recensione: Mosaic
Attivi dal 2009, i Lesoir oggi sono un quintetto olandese dedito a un pregevole art/prog. rock con numi tutelari di tutto rispetto, quali Anathema, Steven Wilson, Pain Of Salvation, Gazpacho e The Pineapple Thief.
I fondatori Maartje Meessen e Ingo Dassen, rispettivamente tastierista e chitarrista del combo, hanno compiuto evidenti passi in avanti rispetto all’album di debutto (uscito nel 2001) e Mosaic è la quinta fatica in studio per la band nederlandese. L’artwork è l’ennesima perla della discografia targata Lesoir e alla produzione troviamo i più che competenti John Cornfield e Paul Reeve a curare il sound delle nove tracce che nell’arco di tre quarti d’ora regalano musica da non lasciarsi scappare.
Il platter si apre senza alcun intro arzigogolato, la title-track ha invece un incedere diretto con un basso avvolgente e la voce eterea di Eleen Bartholomeus in primo piano. Nessuna forzatura, nessuna asprezza, dunque, abbiamo a che fare con un rock smussato e atmosferico, cosa chieder di meglio? Il pezzo comunque guadagna in mordente nell’ultima parte, quando le chitarre iniziano a graffiare e si sposano alla grande con le linee vocali costantemente fatate.
E che dire del brano che segue? Con un completo cambio di atmosfera, “Is This It?” risulta subito spiazzante, spigoloso nel suo refrain ossessivo e accusatorio, oltre che infarcito di tempi dispari e certa sperimentazione à la Bent Knee. Resta invariata la dimensione lisergica, ma la song è impegnativa d’ascoltare fino in fondo. Sicuramente il ritornello vi resterà in mente, ma con un quid di sgradevolezza.
Fortunatamente si tratta di un caso isolato all’interno del full-length. “Somebody Like You” è meno incisiva dell’opener ma il sound ritorna al giusto punto di equilibrio tra impeto e grazia. A dir poco toccante l’inizio di “The geese” (non siamo sui livelli degli iamthemorning ma poco ci manca), poi la qualità della composizione va calando in un lungo procedere iperdilatato. Stupisce all’avvio anche “Measure of things”, con dinamiche vellutate e vocalizzi araboidi; un brano con buon pathos (sarebbe stato bello avere Anneke Van Giersbergen come ospite).
Tra le song più floydiane “Dystopia” (con la sua voce maschile narrante) è un lungo viaggio nei meandri di una mente sonnambula: emergono gl’influssi dei Porcupine Tree ma il tutto ha una coloritura personale e riconducibile ai Lesoir.
Gli ultimi tre pezzi non sono filler, bensì continuano il percorso sonoro fin qui proposto e lo fanno con maestria. “It’s Never Quiet” passa dal crepuscolare alle tinte folkish create dal flauto di Maartje Meessen, però è la voce di Eleen ha stupire davvero con il suo carattere deciso e proteiforme: nella seconda parte del brano, infatti, si spinge su registri più bassi e tirati, dimostrando una versatilità inaspettata.
Il disco si chiude con l’intermezzo di pianoforte ed elettronica “MXI” che introduce “Two faces”, brano più lungo in scaletta: quasi otto minuti di traiettorie sonore divergenti e complementari, con il tempo che sembra a tratti rallentare e annullarsi.
Mosaic è un buon album di rock progressivo ma nel solco dell’art rock di stampo floydiano, siamo lontani dal neo prog. sinfonico di band come IQ, Big Big Train e affini. Un disco tutto da scoprire e assaporare più e più volte in base al mood del momento. Consigliato.