Recensione: Mosaic

Di Germano "Jerry" Verì - 3 Dicembre 2023 - 12:00
Mosaic
Band: Theocracy
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2023
Nazione:
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78

Tornano alla ribalta i Theocracy, quando ormai in tanti li davano per dispersi, dopo ben 7 anni dal buon Ghost Ship. Non che siano mai stati particolarmente prolifici (5 album in 20 anni, con questa uscita), ma di certo l’attesa ha accresciuto la curiosità nei confronti di questo nuovo lavoro di una band certamente propensa al cambiamento e alle contaminazioni nell’ambito del power-prog di qualità. Matt Smith e compagni di turno hanno infatti sempre saputo raccogliere influenze all’interno del loro genere con grande capacità e gusto, ma difficilmente (e questo è probabilmente il loro più grande limite) sono riusciti a conferire un’impronta distintiva e personale alla loro musica. I loro primi album avevano una certa componente progressiva ed elementi sinfonici, mentre gli ultimi due album sono stati un po’ più immediati, con brani più brevi e accattivanti. Questo nuovo Mosaic sembra collocarsi un po’ nel mezzo, essendo caratterizzato da un sound potente e intenso, ma preservando tutta la ricerca melodica tipica dei Theocracy e le tematiche cristiane. L’aggiunta del chitarrista solista Taylor Washington, proveniente dai Paladin, sembra aver reso i riff più incisivi, in coerenza con una certa influenza thrash proveniente dai Paladin stessi.

L’album si apre in maniera piuttosto ruffiana con “Flicker”: un pezzo di power diretto e velocissimo che, pur non spiccando per originalità, riesce ad accendere l’ascoltatore con un refrain trascinante. Alza ulteriormente la fiamma il riffing massiccio della successiva “Anonymus”, più articolata nella struttura e ricercata nelle linee melodiche, ma sempre di facile assimilazione. Trova spazio nel brano anche la vendetta della chitarra solista, che si fa protagonista lasciando alla collega ritmica il compito di schiaccia sassi metallico.

Segue quella che non può che essere, inevitabilmente, la title-track. “Mosaic” è un settebello a scopa, un asso nella manica, una canzone ineccepibile sotto ogni punto di vista. Si apre ingannevole e sognante (qui Smith ricorda il Falaschi di “Heroes of Sand”) per poi scatenarsi un una classica cavalcata che sembra sfornata dai migliori Edguy. Potenza, melodia e qualità esecutiva impacchettati alla perfezione in 5 minuti e mezzo. Dopo tre brani è già evidente e degna di note la performance di Matt Smith, capace tanto di inerpicarsi su vette nepalesi quanto di conferire espressività ed emozionalità alla sua voce. “Sinsidious (The Dogs Of War)” ha dei continui e piacevoli campi di tempo, alternando il martello delle sezioni in mid-tempo alla spada di quelle veloci. Il mood è pesante, il muro sonoro è massiccio e apparentemente invalicabile. Tocca poi ad un attraente coro aprivi un varco, completando il gioco di contrasti che contraddistingue questo pezzo.

 

 

Segue “Return To Dust”, altro brano (insieme alla title-track) ammiccante, facile ma efficace, con cori coinvolgenti. Le coordinate restano simili in “The Sixth Great Extinction“, risultando solo leggermente più tirata, con l’estensione di Matt Smith costretta costantemente agli straordinari. L’intro di “Deified” conquista subito l’ascolto, ma lo speed del resto del brano finisce per suonare piuttosto ordinario, lasciando presto e senza memorabilità lo spazio all’unica ballad del platter, “The Greatest Hope”. Proprio perché l’unica, era lecito aspettarsi qualche azzardo in più in termini compositivi, ma ciò non toglie che il pezzo suoni emozionale e organico nel suo crescendo, riuscendo a regalare momenti di serena positività. È poi il turno di “Liar, Fool, or Messiah“, un’autentica mazzata tra i denti scagliata da chitarre inzuppate di thrash a ritmi serrati, per quasi 8 minuti di furore. Chiude l’album, la mastodontica (quantomeno nel minutaggio) suite “Red Sea”, certamente il pezzo più ambizioso del lotto. Le sonorità mediorientali introduttive lasciano presto il campo ad un mid-tempo solido con belle linee vocali, passando poi, in questo viaggio mistico, attraverso corse al fulmicotone, passaggi corali e divagazioni strumentali con lunghi assoli. Trova spazio nel brano una breve sezione acustica prima di lanciarsi nella cavalcata finale, anch’essa infarcita di variazioni. Certamente una degna chiusura, sebbene la scarsa coesione tra alcune delle varie sezioni e una certa ridondanza complessiva finiscano per renderla un po’ stucchevole.

 

Termina così un album ottimamente prodotto e suonato altrettanto bene, con Matt Smith e Taylor Washington sugli scudi. Pur non sconvolgendo il panorama power/prog attuale, questo Mosaic risulta un ottimo lavoro sotto tutti i punti di vista, riuscendo anche nell’intento di assestare i Theocracy all’interno di una cornice stilistica più definita e coerente, soprattutto rispetto ai primi dischi. Un lavoro in grado di fare la felicità degli amanti del power spruzzato di prog e macchiato di thrash, sempre pronto a strizzare l’occhio alla melodia e alle ugole sparate al cielo. Sì, proprio quello a cui si rivolgono spesso i Theocracy.

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