Recensione: Motherland
Parlare di un nuovo album dei Pretty Maids di Ronnie Atkins e Ken Hammer richiede da sempre una giusta predisposizione d’animo ed un approccio alla materia piuttosto strutturato.
La miscela volta ad elaborarne l’analisi non può, infatti, non comprendere il dovuto rispetto reverenziale per una band dal profilo storico, un po’ d’inevitabile ammirazione (da fan di vecchia data!) ed un minimo di senso critico, utile nel mantenere il distacco necessario che delimita il sostenitore tout-court dal cronista capace di osservare comunque con occhio critico anche il lavoro dei propri beniamini.
Diciamoci la verità.
Essere severi con i Maids, è esercizio decisamente difficoltoso quanto – visto il valore del nome in gioco – improbabile e complicato.
Vuoi per lo stile compositivo che, caso ormai raro, scaturisce in un sound divenuto negli anni inconfondibile, vuoi per il fatto che nei dischi di questa attempata cricca di gioviali danesi c’è sempre qualcosa di ottimo per il quale gioire, fatto sta che, quando un nuovo album dei Pretty Maids si affaccia dalle parti dello stereo, siamo già al corrente – sin da subito – che quanto andremo ad ascoltare saprà fornirci qualche soddisfazione ed una selezione di brani riusciti.
Talvolta dai contorni piacevoli, altre dall’aspetto entusiasmante. In ogni caso, sempre di buona qualità.
“Motherland”, tredicesimo capitolo di una carriera giunta alla soglia del trentennale, non fa eccezione a questa regola, contribuendo a rinforzare una sicurezza che va consolidandosi con il trascorrere degli anni, senza tuttavia arroccarsi in un ambito vetusto e cristallizzato nella costante rincorsa dei successi della prima ora.
A differenza di tanti “tromboni” ancora a spasso dopo decenni, il valore artistico di Paul Christensen e Kenneth Hansen (Atkins ed Hammer, unici rimasti del nucleo storico) è ben riconoscibile, infatti, nell’incessante tentativo – spesso suffragato da ottimi esiti – di rinnovare il proprio sound senza snaturarlo, rifornendolo di elementi di modernità che sappiano mantenerne vivo l’interesse nel pieno rispetto di uno stile ben riconoscibile e personale.
I suoni sono evolutissimi, il taglio contemporaneo, le tematiche attuali e la produzione decisamente “piena” come i tempi impongono. Eppure nessuno, conoscendoli, potrebbe osar dire che un brano come l’opener “Mother Of All Lies” non sia 100% Pretty Maids, rinvenendone sin nei dettagli, tutte le caratteristiche che da sempre fanno parte del songwriting in forza al gruppo nordico.
Voce abrasiva, ritmi serrati, chitarre “armoniosamente” potenti e tantissima melodia su cui appoggiare il classico coro/ritornello da mandare a memoria.
Certo, il periodo tribolato a livello mondiale, ha lasciato il segno anche nei testi e negli argomenti scelti per questo nuovo album. La già citata opener ad esempio, è un bell’atto di accusa, diretto e senza compromessi, nei confronti dell’inganno globale della “crescita e profitto a tutti i costi”, feticci ed idoli al cospetto dei quali sono sfacciatamente sacrificate la dignità ed i valori sociali dei popoli. Tuttavia, la durezza dei soggetti ed il tiro heavy di alcuni passaggi, non sono un buon motivo per tralasciare l’inserimento di linee melodiche che sappiano apparire accattivanti e di pronta presa, così com’è tradizione sin dal 1983: la deliziosa “To Fool A Nation”, la teatrale “The Iceman” e le ruvide “Motherland”, “I See Ghosts” e “Who What Where When Why” ne sono testimonianza immediata e lampante.
Accompagnato da un perenne ed avvolgente tappeto tastieristico (impagabile il lavoro oscuro di Morten Sandaeger), il rombante suono della chitarra di Hammer doppia la voce mai doma di Atkins, delineando i contorni dell’ennesimo buon album targato “PM”.
Quando poi i Maids decidono di essere davvero zuccherosi e “carini” come il loro monicker impone, ecco nascere i gioielli veri e propri, quei piccoli capolavori d’arte ed eleganza melodica che da sempre ne costellano la discografia. “Sad To See You Suffer” e più ancora la scintillante “Bullet For You”, traccia dal ritornello irresistibile, vanno a far compagnia alle varie “Walk Away”, “In A World Of Your Own”, “Live Until It Hurts”, “If It Can’t Be Love” e “Clay”, brani che orgogliosamente compongono la “hall of fame” delle ballad made in Pretty Maids.
Perfettamente allineato sui valori dell’eccellente predecessore “Pandemonium” (2010), nonostante qualche passaggio di minor efficacia (la monolitica e superflua “Hooligan” su tutti), “Motherland” è, insomma, il degno prodotto di una band alla quale solo bizzarre congiunture astrali hanno impedito di essere annoverata tra i grandissimi del genere.
Qualcuno lo ha già detto, ma ci sta ripeterlo: inossidabili…
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