Recensione: Motherload
I Black Sabbath? Ovvio: quelli che hanno inventato l’heavy metal…
Un’affermazione che abbiamo proclamato in mille modi e con mille intonazioni diverse, un’infinità di volte, impossibili da contare.
E se non è possibile numerare le occasioni in cui il nostro ipse dixit ritorna come una nauseante litania, è altrettanto difficile quantificare con precisione le bands che hanno attinto dal patrimonio dei nostri beniamini.
Possiamo, però, affermare con certezza che, tra le frementi schiere degli emulatori del Sabba, risiedono fermamente i The Graviators, creatura nata per volontà degli svedesi Niklas Sjoberg e Martin Fairbanks, che hanno all’attivo due full lenghts (“The Graviators” ed “Evil Deeds”).
D’altronde, già dal primo ascolto, non ci vuole un genio per capire da chi i Graviators abbiano preso ispirazione: la tetra litania di “Leif’s Last Breath-Dance Of The Valkyrie” allestisce un’amalgama oscura di hooklines aspre e stentoree, oltre a proporre citazioni chitarristiche sabbathiane e in stile NWOBHM (Witchfinder General in primis).
“Narrow Minded Bastards“ accentua le ritmiche trascinate, con la voce nasale di Niklas sempre sugli scudi, la cui intonazione gemente è la perfetta pantomima del buon Ozzy. Da segnalare, l’ispirato fill melodico della sei corde, ripetuto più volte lungo la canzone, un accorgimento personale a dispetto delle solite tessiture a là Tony Iommi.
Il trittico iniziale si completa con “Bed Of Bitches”, dove i Nostri allestiscono un cerimoniale oscuro con l’ausilio di ritmiche gravi e del main vox, acuto e penetrante quanto la lama di un pugnale sacrificale. La sensazione di assistere ad un rito occulto si accentua grazie alla digressione centrale, impostata su una trama composta da effetti sonori distorti e inquietanti.
Dopo il terzo slot, è il momento di fare sul serio: la durata delle canzoni si fa sensibilmente più lunga e ciò consente di sviluppare un linguaggio ammaliante e maggiormente strutturato, senza rinunciare ai canoni sopra citati.
La kermesse ha, dunque, inizio con “Tigress Of Sibiria”, una maratona di otto minuti, ricca di cambi tonali e ricercati passaggi del guitar play: non abbiamo tempi morti e, sebbene la fuga venga ampiamente abusata, la frenesia si stempera nelle sezioni rallentate, mentre risalta un coro ripescato direttamente dagli annali d’oro del migliore classic metal britannico. “Tigress Of Siberia” si dimostra, così, un pezzo di resistenza ma anche una delle tappe più gradite dell’intera setlist.
L’uptempo di “Lost Lord” e la vibrante “Corpauthority” insistono sulle divagazioni strumentali e sui cambi di tempo, dilatando lo spazio musicale: “Lost Lord” riscopre le atmosfere crepuscolari e meno movimentate di “Tigress Of Sibiria”, pur mantenendo una forza espressiva chiara e penetrante nelle liriche elevate dei backing vocals. Una prova non sconvolgente ma vi assicuriamo che non sarà difficile perdersi nei suoi meandri, abitati da riff che si nutrono delle suggestioni marchiate seventies.
Discorso simile per “Corpauthority”, la quale ripudia tempi veloci preferendo tempi medi mentre il frontman lancia un grido disperato contro il degrado dell’autorità, il tutto colorito da vocalizzi che grondano sofferenza e desolazione. Compaiono rocciosi innesti che schiacciano una voce tesa nella disperazione più cupa. Insomma, un discreto episodio ma la sfida è vinta da “Lost Lord”, grazie, soprattutto, alla digressione centrale più riuscita.
Continuiamo ad addentrarci in questo mondo di cabala e mistero attraversando “Drowned In Leaves”, sulfurea ballad che unisce momenti onirici (arpeggi e organo decadenti) a tellurici riff di chitarra. Anche in questo caso, risalta l’escursione incalzante del main guitar, capace di unire frenetiche incursioni e assoli orientaleggianti.
A differenza di “Drowned In Leaves”, “Eagles Rising” avanza minacciosamente mentre Niklas Sjoberg distorce la voce per creare un’atmosfera disturbante e malata (un trend iniziato dai maestri del prog rock King Crimson e sviluppato, in seguito, dai sottovalutati Atomic Rooster). La quasi assenza di variazioni ritmiche e i patterns cadenzati e granitici chiudono il cerchio, relegando la canzone a ruolo di filler, a causa di una certa monotonia di fondo che pervade tutto il brano.
Il sipario cala sulle trame lisergiche di “Druid’s Ritual” (rifacimento di un brano dello split album The Graviators/Brutus, 2011): ancora doom polveroso e rituale, che non aggiunge nulla di nuovo al platter, eccezion fatta per il lungo guitar solo, il quale serpeggia tra le pieghe ritmiche, movimentando il nostro tour de force. La progressione solista convince nella parte più indiavolata mentre, alla fine del racconto, una cacofonia maligna disturba l’ascoltatore (effetto fastidioso e monotono, che più di qualcuno avrebbe fatto volentieri a meno…).
“Druid’s Ritual” riassume alla perfezione l’iter stilistico del quartetto svedese, con tutti i suoi pro e contro: la lunghezza di alcune composizioni non è sempre un difetto ma è spia di una band in crescita, che dovrà raffinare il proprio sound per ambire ad una maggiore qualità e identità compositiva.
Terminato l’ascolto, il rituale è compiuto: quello che ci troviamo di fronte è un album con una particolare predilezione per il doom metal e lo stoner, che non toglie e non aggiunge nulla di nuovo alla formula druidica che i maggiori esponenti del genere avevano anni or sono preparato.
The Graviators… only for fanatics.
Discutine sul forum nella sezione Stoner!