Recensione: Moving Pictures
Cimentarsi nella recensione di un disco come Moving Pictures è sempre un’impresa ardua per lo scribacchino di turno. Si corre sia il rischio di inanellare una lunga serie di elogi che al lettore non dicono assolutamente nulla riguardo il contenuto di un disco, e si corre anche il rischio di cadere nel banale e nello scontato. Ma, ahime, come non cominciare questa recensione nel modo più scontato possibile quando si ha a che fare con i Rush?
Posso solo esordire dicendovi che questo Moving Pictures, rilasciato nel Febbraio 1981 da Mercury/Polygram, altro non è che l’ennesimo immenso capolavoro del trio canadese. Considero Moving Pictures come il perfetto anello di congiunzione tra la fase prettamente hard prog dei ’70 e quella più sperimentale degli anni ’80. Le tastiere ed i synth iniziano ad essere parte integrante del sound della band, ma rimanendo comunque in ambito di arrangiamento, donano una maggiore completezza al suono già corposo.
Il disco si apre con il superclassico “Tom Sawyer” che non fa che confermare quanto detto fin’ora, un concentrato di energia sorretto dalla sempre formidabile sezione ritmica targata Peart/Lee e un Lifeson in forma perfetta, che sfoggia un assolo veramente notevole. La song è considerata uno degli highlight dell’intera discografia dei Rush (curiosià: i Metallica di Master Of Puppets ne citeranno il riff principale nella song “Welcome Home”) e sarà onnipresente in praticamente tutti i live da qui in poi.
In seconda posizione troviamo un altro grandissimo brano, “Red Barchetta”, probabilmente la song più bella mai scritta su un’automobile (barchetta indica una Ferrari). Veramente perfetto l’andamento del brano con un’altrettanto perfetta fusione testo/musica, al cui ascolto sembra veramente di essere lanciati in una folle corsa con il vento tra i capelli. Il brano inizia con un giro di armonici di chitarra su cui il basso di Lee disegnerà una stupenda melodia prima che la voce ci scaraventi direttamente nel solito, grande testo di Neil Peart. Siamo alla traccia numero tre e troviamo un altro capolavoro senza tempo. “Yyz”, unico brano strumentale del disco, mostra quanto i Rush siano sempre stati avanti rispetto al panorama musicale che li circondava. Il riff iniziale (costruito sulla traduzione Morse della “parola” Yyz, codice dell’aeroporto di Toronto da cui i nostri si imbarcavano per partire in tour) mostra quanto il terzetto di Toronto abbia contribuito all’odierna scena progressive metal (i più maligni tendono a sottolineare una certa assonanza tra “Yyz” e “Ytsejam” dei Dream Theater) consegnandoci una song tesissima, costruita su un continuo intreccio di chitarra e basso che trovano un attimo di riposo nel break centrale dove Lifeson ci regala un altro dei suoi grandi soli, qui sorretto dalle tastiere di Geddy Lee. Altro brano altro classico. “Limelight”, il cui testo parla del fascino del palcoscenico e dell’alienazione che spesso accompagna il successo, è diventato ormai la classica chiusura delle esibizioni dal vivo. La song ha una struttura meno complessa delle precedenti ma ne mantiene tutto il fascino, vantando un’immediatezza comunicativa veramente mirabile con splendide melodie disegnate dalla voce di Lee e uno stupendo ed atmosferico break centrale in cui spicca un sognante solo di chitarra, che ci accompagna al ritornello finale della song. E qui si chiude la facciata A di quello che era il formato originale di Moving Pictures, ossia il vinile. La seconda facciata si apre con “The Camera Eye”, brano in cui viene dato maggiore spazio ai Synth nonché unica suite presente su questo Moving Pictures ed ultima proposta dai Rush che da qui in poi si concentreranno su una struttura più contenuta. Il brano vanta delle melodie veramente azzeccate che proiettano l’ascoltatore in un atmosfera futuristica. Personalmente trovo che vi sia una eccessiva prolissità nella parte centrale e forse qualche minuto in meno avrebbe giovato alla song, ma questo è forse l’unico difetto presente nel disco. Ciò non toglie che “The Camera Eye” sia diventato un altro classico della band, amatissimo dai fans e risultando sempre tra i brani più votati nelle poll presenti in rete. Un’intro agghiacciante ci catapulta in “Witch Hunt (part III of Fear Trilogy)”, brano oscuro e cadenzato, sorretto dai synth e dalla voce di Lee. Di estremo rilievo il testo che parla in modo profondo e pungente della caccia alle streghe e diventerà una delle liriche più celebri dei Rush (famosissimo il passaggio “Quick to judge, Quick to anger, Slow to understand – Ignorance and prejudice And fear Walk hand in hand”). E giungiamo così all’ultima, magnifica “Vital Signs”. Il brano posto in chiusura al disco è una delle song preferite dal sottoscritto e rappresenta tutta la voglia dei Rush di sperimentare, di stupire brano dopo brano senza che nessuna forzatura sia evidente. Il brano è accostabile stilisticamente ai Police (I Rush non hanno mai nascosto il loro interesse per l’allora nascente New Wave Inglese), ovviamente con tutti gli accorgimenti del caso. “Vital Signs” (che è forse il brano meno famoso tra quelli qui presenti ma non si tratta assolutamente di un brano minore) chiude uno dei più grandi dischi della storia del rock, capace di emozionare nota dopo nota e che segnerà anche una svolta decisiva nel sound della band.
Tracklist:
- Tom Sawyer
- Red Barchetta
- YYZ
- Limelight
- The Camera Eye
- Witch Hunt
- Vital Signs