Recensione: Mox Nix [Reissue]
La miniera che idealmente racchiude la Storia del Metallo tutta riesce con continuità disarmante a offrire, quasi fossero nuovi, antichi filoni che da anni permanevano in una situazione di abbandono, sepolti dalle scorie emesse dalle fisiologiche new entry che permettono al genere di continuare a vivere. Capita talvolta che qualche vecchio esploratore, magari su suggerimento di qualche altro veterano dalla memoria lunga, trovi l’ardire di asportare cumuli e cumuli di materiale accatastato in un angolo e ridare vigore a vene che, un tempo, sapevano offrire squarci di autentico splendore.
Calando il pistolotto di cui sopra all’interno di una realtà meno prosaica e con Marco Melzi nei panni del minatore, ci si riesce a spiegare come possa vedere di nuovo la luce oggi, Anno Domini 2013, il debutto degli americani Mox Nix, provenienti dalla zona di Houston e attivi dal 1982 al 1991, denominato per esteso “Mox Nix + All Access demo & Bonus”, a cura della gloriosa Minotauro.
Il disco fu pubblicato nel 1985 in vinile e poi ristampato su Cd con due bonus track dalla Axe Killer nel 2001. La versione oggetto della recensione contiene i dieci brani originali più altri dodici suddivisi fra alcuni appartenenti alle A Hard Place to Rock Session, ri-registrazioni del 2000, estratti dal demo All Access del 1984 e altri registrati sotto l’egida di Bob Rock. Pochissime, comunque, le sovrapposizioni fra i vari pezzi, a fornire quindi maggior valore aggiunto al prodotto finale.
I Mox Nix, tutt’altro che dei cudèghin, si formano sul finire del 1982 e iniziano a suonare proponendo cover di Iron Maiden, Saxon, Riot, Judas Priest, Scorpions e Y & T. L’origine del loro singolare moniker deriva dal modo di dire tedesco “machs nicht”. Con l’entrata di Joe Vernagallo alla batteria, nel 1984, vi è la stesura di brani propri che permette Loro di raggiungere una discreta popolarità, tanto da poter condividere il palco con gente del calibro di Tyton, Helstar e Deadhorse. Esce il demo All Access nello stesso anno e nel 1985 vede la luce l’album omonimo, sotto Axe Killer Records.
Il salto di qualità è evidente nel momento in cui aprono per Accept, Warlock e Yngwie Malmsteen. Poi però, come accade, spesso, nulla più si concretizza per davvero, fra album registrati e mai usciti ufficialmente e date dal vivo non più in arene rock ma in semplici pub di provincia, e, nei primi anni Novanta si assiste alla fine definitiva della band. Questa, in estrema sintesi, la storia del combo di Pasadena (Tx).
Mox Nix, inteso come uscita 2013 comprensiva delle estensioni di cui sopra, costituisce un bagno di salute siderurgico d’altri tempi, forte di pezzi possenti, straclassicamente heavy metal e geograficamente trasversali. L’ugola di Johnny Duff, personaggio vicino a Rhett Forrester dei Riot a livello di presenza, è forgiata nell’Acciaio Semiduro e l’immagine della band è tremendamente in linea con chi in quegli anni ci credeva per davvero, senza però esagerare: stivali col tacco, jeans attillati, cartuccere, trasandatezza diffusa ma nulla di più. Ma al di là del look, che può dire tanto e poco, quello che conta è la sostanza che arriva alle casse una volta premuto il tasto play ed essersi sciroppati tutte le ventidue tracce. In pratica tutti i cliché dell’HM vengono forniti su di un piatto d’argento, peraltro con una resa sonora avvincente – tranne che per gli ultimi tre brani, quelli tratti dal demo del 1984 – che sono da intenders come semplice testimonianza.
Velocità, pathos, violenza, profondità, doppia cassa quando serve – Never Again, Cut Throat -e attitudine a mille, da parte dei quattro texani. Senza inventare nulla, va sottolineato, ma semplicemente interpretando la lezione dei Grandi del Metallo al meglio delle Loro possibilità.
Come al solito, recentemente, il packaging marchiato Minotauro non si limita al semplice booklet ma si presenta in confezione simil-Lp in doppio cartonato, in linea con le ultime reissue relative a Paul Chain già recensite su queste pagine. Nella fattispecie, oltre all’azzeccata costina scorrevole “che fa tanto vinile” una volta riposto nella rastrelliera, vi sono: due cartoncini con le foto promozionali dell’epoca della band, l’alloggiamento del dischetto ottico con foto e logo, un poster 23,5 x 23,5 cm contenente la storia del combo americano attraverso le dichiarazioni dei vari componenti insieme con note aggiuntive. Ma la cosa che fa più piacere trovare è, come capitava talvolta ai tempi che furono, la copertina cartacea suppletiva da sovrapporre alla back cover, quella con la tracklist, a colmare le magagne contenute nella “prima” stampa della stessa.
Stefano “Steven Rich” Ricetti