Recensione: My God
E qui il fan dei Flotsam And Jetsam comincia a non poterne più. Nel senso che “My God“, ottavo album dela loro discografia, è un brutto passo falso? No, esattamente l’opposto, ovvero la sufficienza, o peggio, l’indifferenza con cui critici, Media e una parte del pubblico metal continuavano sostanzialmente a (non) approcciarsi ai Flotsam nel 2001 iniziava a risultare profondamente irritante ed avvilente. Per qualche oscuro motivo quel monicker si è guadagnato nel tempo l’etichetta di “periferico”, una band apparentemente non in grado di sfornare un lavoro discografico degno di nota, o addirittura di grande livello. Una specie di maledizione abbattutasi sui ragazzi di Phoenix all’indomani di “No Place For Disgrace” e che ha finito col condizionarne l’intera carriera.
I vari “Drift“, “High“, “Unnatural Selection” si succedono senza soluzione di continuità, ma anche senza che qualcuno se ne accorga. Un atteggiamento sonnacchioso e distratto fa si che i Flotsam vengano trascurati e, quel che è peggio, vengano trascurati i loro album, affatto mediocri o anonimi. Nonostante ciò per tutti gli anni ’90, i complicati anni ’90, Eric A.K. e soci hanno continuato a lavorare indefessi, nell’ombra, macinando ottima musica, diversificatasi ed evolutasi dal concetto primordiale di thrash metal che li aveva visti tra gli astri più promettenti, comunque vitali e credibili nel loro ordire trame musicali. Hanno progressivamente eretto un nuovo sound, moderno, autentico e peculiare, al passo con i tempi ma senza flirtare con -ismi vari.
“My God” è un album che mantiene alto il tasso di aggressività, raccogliendo le premesse di “Unnatural Selection“. Non che i Flotsam avessero mai abbandonato grinta e spigliatezza ma adesso sembrano più inca**ati del solito, come a voler attaccar briga. Sarà per le liriche, sarà per l’artwork piuttosto politicizzato, sarà perché anche la band avverte quell’immotivata sfiducia che la circonda costantemente; certo è che “My God” è un album con più livore, astio e acrimonia. La scaletta è un meccanismo perfettamente oliato, pezzo dopo pezzo il minutaggio scorre liscio e fluido. I Flotsam sono padroni di loro stessi e del loro power thrash metal, non temono niente e nessuno, e marciano dritti per la propria strada, anche fossero l’ultima band ad essere presa in considerazione sulla faccia della Terra.
L’opener “Dig Me Up To Bury Me“, “Nothing To Say“, “Learn To Dance“, fino alla groovy “Camera Eye“, con le sue strofe hardcoreggianti e serratissime, sono i momenti migliori del disco, che tuttavia non ha filler o riempitivi di sorta. Ogni nota è al giusto posto, una delle tante tessere di un mosaico al quale in tutta onestà si possono muovere ben poche critiche se non quella più gettonata (e ottusa): non essere più la band del 1988. E parallelamente a quanto scritto sin qui, riaffiorano a sorpresa anche vecchie eco riconducibili al malessere grunge (Alice In Chains su tutti), magistralmente sciolte e amalgmate all’interno di una ricetta metal assai più rude e virile (è il caso di “Trash“, della titletrack o di “Weather To Do“).
Vanno difesi i Flotsam and Jetsam, hanno sgobbato più di altri per rimanere a galla, hanno fatto molto meglio di altri in termini discografici e si sono visti riconoscere nemmeno la metà di altri. Eppure sono ancora in circolazione a produrre dischi, ci sono sempre stati per la verità, anche se in molti avevano il prosciutto sugli occhi o erano abbagliati da falsi profeti. “My God” è l’ennesimo lavoro solido, concreto e sostanzioso da parte di una band affidabile come poche che non ha mai mollato.
Marco Tripodi