Recensione: My Last Day
Grazie ad un artwork curato ed intrigante e ad un singolo apripista piuttosto convincente (“Everytime I Close My Eyes”, con la partecipazione, in qualità di guest vocalist, nientemeno che di GL Perotti degli Extrema), Il debut album autoprodotto dei veronesi Closer parrebbe avere tutte le carte in regola per riuscire a sfondare.
Eppure, dopo svariati e attenti ascolti, i conti non tornano.
La band guidata dal cantante e chitarrista Marco Vantini propone un hard ‘n’ heavy a tinte groovy, decisamente vicino alla proposta di gruppi come Alter Bridge, 3 Doors Down e Nickelback e declinato con le sonorità tipiche di realtà come Pantera ed Extrema.
Gli ingredienti indispensabili per questo genere sono sostanzialmente due: un guitar work d’impatto e la capacità di comporre costruzioni melodiche efficaci, culminanti in ritornelli orecchiabili ma non banali. Alcuni pezzi contenuti in “My Last Day” riescono nell’intento di unire i suddetti ingredienti con una certa disinvoltura. È il caso della già citata “Everytime I Close My Eyes”, dell’ottima “Disappear” – senza dubbio alcuno la migliore traccia in scaletta in virtù di una linea vocale non scontata e dell’ispirato guitar work ad opera di Andrea Bonomo e dello stesso Vantini – o dell’altrettanto piacevole title track.
Un vero peccato, tuttavia, constatare come i momenti più “felici” dal punto di vista dell’ispirazione e della riuscita complessiva siano in minoranza all’interno della tracklist rispetto ai momenti nei quali tutti i limiti tecnici (in particolare legati al cantato) ed esperienziali del quartetto veneto vengono (purtroppo) a galla.
L’ugola del Vantini non è oggettivamente di quelle in grado di cambiare volto a canzoni di per sé non particolarmente brillanti; non di meno, a fronte di un songwriting quantomeno sufficiente, si può chiudere un occhio sulla non perfetta intonazione e sulla limitata estensione. Le cose vanno decisamente peggio quando i Closer non riescono ad azzeccare il killer riff o a tirar fuori dal cilindro un ritornello vincente: il risultato complessivo si riflette in pezzi scialbi e privi di mordente, sulle cui note la voce del Vantini si trascina con passo circospetto e poco convinto.
Due esempi? Le semiballate “What Are We Fighting For” e “Closer”: molli, stucchevoli e afflitte da refrain in una parola inconcludenti. Va un po’ meglio con le successive “Preachers Of Nothing” e “Fearless” più dinamiche e scorrevoli ma ancora lontane da livelli d’eccellenza e soprattutto di nuovo prive di soluzioni melodiche o compositive realmente degne di nota.
In chiusura, prima della citata “Every Time I Close My Eyes”, la ballata “You Were Mine” – caratterizzata da una partenza in acustico (un po’ alla maniera degli House Of Lords di “Can’t Find My Way Home”) seguita da un bel crescendo melodico che non trova, tuttavia, adeguato compimento nelle poco convincenti linee vocali – e la discreta, ma non miracolosa “Outta My Head”.
Al tirar delle somme “My Last Day” si rivela un album non sgradevole all’ascolto e anzi caratterizzato da alcuni momenti di buonissima qualità, tuttavia afflitto da alcuni difetti sostanziali che rendono impossibile il raggiungimento della sufficienza piena: il cantato, poco personale e complessivamente incerto e poco convincente, e la capacità non ancora del tutto acquisita di comporre canzoni globalmente riuscite. Se a ciò si vanno ad aggiungere le perplessità relative alla qualità audio (da rivedere, pur tenendo conto della natura autoprodotta dell’album), il quadro appare nella propria interezza: discreti fondamentali e qualche buona idea ma ancora molto lavoro da fare, per focalizzare meglio il tutto e migliorare gli aspetti meno convincenti della proposta.
In bocca al lupo, ragazzi.
Stefano Burini