Recensione: Myths of the Islands (島嶼神話)
Dopo l’oscuro e complesso “Hagakure“(2018) i taiwanesi Bloody Tyrant rilasciano quest’anno “Myths of the Islands”, il nuovo full-lenght, proseguendo la naturale evoluzione dell’autodefinito Tyrant Metal. Il tipo di proposta contenuta si riflette negli inediti cromatismi dell’artwork, dai toni romantici ma anche ardenti come una pirografia.
Similmente ad “Hagakure” ci aggiriamo in una corposa e tosta base death metal melodico venata da camaleontiche tinte post metal, ereditando il growl profondissimo e lo scream abrasivo. Il resto cambia parecchio e lo sviluppo esponenziale dei cori è uno di queste novità. Nello specifico quelli in pulito, con il loro spirito a volte cameratesco ed a volte sognante e sferzante, sottolineano un’epicità così marcatamente power che i riff sono spesso suonati anche in altre tonalità.
Si potrebbe quindi pensare che i miti di Taiwan diventino melodie inneggianti, sospese in uno spazio temporale indefinito ma lontano. Ecco che il suono – accompagnato da una buona produzione – diventa concettualmente leggero, a volte quasi solare, inafferrabile tra alcune ricercatezze prog, definite linee hard rock ed heavy metal. C’è quindi parecchia carne al fuoco, distribuita in strutture multiformi eppure al tempo stesso più o meno immediate. Da non dimenticare l’immancabile e vibrante pipa ed un ipnotico strumento a fiato, strumenti tradizionali in grado di enfatizzare l’aura leggendaria e fatata delle tracce. Altri elementi quali tastiere e pianoforte sono invece in grado di espandere uno spirito pionieristico oppure conferire un tocco cosmico (come l’organo nella valida”Genesis”), od ancora, malinconico e triste.
“Two Burning Suns” è probabilmente il pezzo più in linea con questa emozione, anche per via di innesti doom, illuminati però dal breve e particolare rintocco del jew’s harp. Il brano risulta ben equilibrato e fluidamente vario a livello compositivo, grazie ad una dinamicità prog valorizzata dalla batteria.
“Transformation” invece confonde con muscolari e virtuose sonorità mediorientali a tratti vicine ad “Home” dei Dream Theater, intervallate dal loro stile tipico. I bellissimi cori verso la fine non bastano a convincere in toto della qualità del brano. Meglio la diretta e misteriosa “Colossus”, avventurosa nei pregiati assoli centrali.
Parlando di virtuosismi, in “Whale” ci sono probabilmente quelli più creativi ed affascinanti dell’intera opera, imperniati su un’incedere marziale hard-rock ed heavy metal di -relativamente – semplice struttura. E’ un brano a suo modo spiritualmente divertente, come le simili “The Antlers” e “Sacred Lake”. La prima colpisce con la sua immediatezza potentemente Iron Maiden-iana, mentre “Sacred Lake” – altro punto alto del disco – incanta con arrangiamenti avanguardistici avvolti in un approccio più dilatato ma comunque scandito.
Quanto alle note dolenti, tralasciando la più articolata “Transformation”, si può indicare “Black Wings” come il vero punto debole del full-lenght, pur essendo tutt’altro che una brutta canzone. Si tratta di uno di quei brani che catturano immediatamente per l’epicità pomposa, per i cori travolgenti ma che in realtà risulta penalizzata da un sentimento ruffiano, troppo europeo/occidentale (Ensiferum nello specifico). I testi in’inglese – tra l’altro presenti in tutte e nove le canzoni- accentuano il difetto.
Con “Myths of the Islands” i Bloody Tyrant propongono un lavoro generalmente buono nella concettualità melodica e strumentale ma che non sembra sviluppata appieno nelle sue potenzialità. Il growl era forse più azzeccato in “Hagakure” che in questo contesto ma quel che davvero pesa è la sensazione di forzatura, un desiderio di mostrarsi più appetibili nei confronti del mercato occidentale. Ciò è un vero peccato, in quanto ne smorza l’originalità. Se vogliamo, questo disco è l’opera più accessibile della band, che può piacere a chi dei cori non ne ha mai abbastanza, così come delle melodie anthemiche, con alcune divagazioni.
Elisa “SoulMysteries” Tonini