Recensione: Narnia
Seconda metà degli anni Novanta, l’Europa metallica è messa sotto scacco dal prepotente ritorno, in tutte le sue sfaccettature, del power metal. Proprio in quegli anni, per la precisione nel 1997, dalla fredda terra di Jönköping in Svezia, una nuova compagine diede alle stampe il proprio debutto discografico. Una formazione che sembrava essere nata appositamente per cavalcare quella sorta di ondata in musica che, come una fiamma, divampava nel Vecchio Continente. Si presentò ai metalhead con un sound chiaramente debitore al Malmsteen dei tempi d’oro e un monicker legato a una delle saghe fantasy più note e amate dagli appassionati del genere. Stiamo ovviamente parlando dei Narnia, band che non ha sicuramente bisogno di presentazioni. Un ensemble che, grazie alle tematiche cristiane dei testi, al leone Aslan (con cui il metal act venne presto identificato) quasi sempre presente sulle copertine degli album e a dischi sicuramente non innovativi ma di pregevole qualità, ha lasciato un segno indelebile, nel bene o nel male, in chi ha vissuto in prima persona quegli anni. Un’avventura che terminò improvvisamente con lo scioglimento avvenuto nel 2010. La voglia di tornare a fare musica, di dare un seguito a ciò che venne bruscamente interrotto, però, ha ripreso presto forma nel quintetto svedese. Così, dopo la reunion avvenuta nel 2014 e l’annuncio di un imminente nuovo full length, il nome Narnia ritorna a far parlare di sé.
La compagine scandinava non perde tempo e, dopo l’annuncio, ecco pubblicata la nuova fatica discografica. L’album del ritorno si intitola semplicemente Narnia e, come già successo con il precedente Course of a Generation, nella copertina non compare il classico tema con il leone Aslan, anche se i riferimenti cristiani rimangono ben evidenti. Vengono infatti raffigurati una croce su cui sono deposte una spada e una corona di spine. Entrando nel dettaglio del disco e iniziando l’analisi dal punto di vista musicale, i Narnia si ripresentano con una proposta che, in un’ipotetica retta temporale, sembra dare continuità a quanto espresso nella fase centrale della propria carriera. Come se volessero momentaneamente dimenticare l’animo moderno esibito nel già citato Course of a Generation, unico disco della band senza la voce di Christian Rivel-Liljegren, sostituito dal bravo Germán Pascual al microfono. La spiegazione è facile da trovare: Pascual aveva una voce più aggressiva, che ben si sposava al sound moderno citato poc’anzi; la voce più melodica di Rivel, invece, per essere valorizzata necessita di un suono più classico, in linea con quella proposta che regalò tante soddisfazioni ai Narnia. Forse è proprio questo il ragionamento che ha portato la band a decidere di tornare in pista con un disco omonimo, come se volesse scandire l’autenticità del comeback. I Nostri, quindi, mescolano sapientemente heavy melodico, influenze hard rock e una solistica di prim’ordine che, seppur in modo più velato rispetto agli esordi, rimane ispirata a un certo Malmsteen sound, condendo il tutto con un pizzico di prog e atmosfere maestose. Le hit non mancano e canzoni come la grintosa e diretta Reaching for the Top, che con quel suo inizio “Here we are, we’re on the road again” è un’autentica dichiarazione d’intenti, la classica e maestosa Narnia track On the Highest Mountain, Messenger e le conclusive Moving On e Set the World on Fire entrano di diritto tra i migliori capitoli composti dalla band svedese. Qui tutto gira alla perfezione: songwriting ispirato, ottime prestazioni dei singoli, in cui spiccano il già citato Rivel al microfono e Carl-Johan Grimmark alla chitarra. Canzoni sorrette da ritornelli capaci di stamparsi immediatamente in testa e da soluzioni compositive che risultano vincenti pur non dicendo nulla di nuovo.
Ma quindi Narnia si presenta come un disco privo di punti deboli? Non proprio… Purtroppo, durante l’ascolto, incontriamo qualche piccolo passaggio a vuoto, che però, grazie all’esperienza, viene abilmente nascosto. Proviamo a spiegarci meglio: citate le tracce più ispirate, le restanti non risultano altrettanto capaci di coinvolgere l’ascoltatore per tutta la loro durata. Qualche passaggio meno brillante tende a fare capolino. É il caso di I Still Believe, in cui il ritornello risulta troppo scontato, sia nella linea vocale che nella struttura compositiva, o One way to the Promise Land, che alterna parti in grado di far letteralmente sobbalzare sulla sedia l’ascoltatore a parti che sanno di già sentito. Ma, come dicevamo, questi aspetti negativi, se così possono essere definiti, vengono sapientemente nascosti dall’esperienza. La band decide, infatti, di contenere la durata del nuovo full length, donando così una certa compattezza di fondo. Nove sono i capitoli che compongono Narnia, per un totale di quaranta minuti scarsi. Una scelta che permette alla formazione svedese di tenere ben saldo tra le proprie mani il timone, senza correre il rischio di smarrire la retta via sulla lunga distanza. Permette di non perdere intensità sebbene qualche calo d’ispirazione si faccia notare durante l’ascolto. La possiamo definire “saggezza compositiva”, una qualità che in pochi possono vantare.
Come considerare, quindi, Narnia? Come un disco che saprà soddisfare i fan della formazione di Jönköping. Probabilmente non verrà ricordato come l’album migliore della loro discografia, d’altronde riuscire a superare quanto espresso nei primi tre lavori e nel più volte nominato Course of a Generation non è cosa tanto semplice, ma rimane un ritorno sulle scene sicuramente positivo. Sebbene il leone Aslan non sia presente in copertina, la settima fatica della formazione svedese può essere perfettamente descritta con il motto che l’ha sempre contraddistinta nel corso della propria carriera: The lion roars again! Bentornati, Narnia.
Marco Donè