Recensione: Native Souls
Capita, ogni tanto, di provare una sensazione singolare, privilegiata, probabilmente unica.
Quasi come un “ritorno a casa”: un momento di gratificante nostalgia che si riappropria di qualche frammento del passato per annodarsi alla quotidianità, allacciando la memoria ad emozioni che sembravano disperse ed introvabili.
Era un 2010 agli albori, l’anno in cui avevamo potuto celebrare la nuova uscita degli Edge of Forever – “Another Paradise” – con una recensione entusiasta, stimolata da un prodotto scritto e suonato con il cuore da quello che sarebbe divenuto, negli anni a venire, come uno dei punti fermi del rock tricolore ed internazionale.
Un artista che alla luce di una carriera fulminante e di una serie di collaborazioni praticamente enciclopediche, non ha ormai alcuna necessità d’esser presentato o introdotto presso gli assidui fruitori e frequentatori di generi quali AOR, Hard e Melodic Rock.
Si dice Ale Del Vecchio ed il resto vien da se: il micro-universo del rock melodico degli ultimi dieci anni immediatamente si anima, mostrando come l’eccellente musicista nostrano abbia saputo disseminare il proprio talento in una marea di sfumature ed occasioni, componendo, prestando la voce, collaborando alla produzione o movendosi in prima persona nel dare lustro e risalto con la propria opera ad una grande quantità di progetti in giro per l’Europa.
Una carriera corposa e di spessore che ha, tuttavia, avuto un principio ben definito ed un’origine nobile a cui è corretto mostrarsi riconoscenti ed è bello poter rivisitare. Con gli Edge of Forever, Del Vecchio ha iniziato a farsi conoscere nel 2004, epoca d’uscita del discreto “Feeding The Fire“, cui seguirono il più convincente “Let The Demon Rock n’Roll” ed il fondamentale “Another Paradise“, a detta di chi scrive una sorta di pietra “miliare” per le ambizioni internazionali della scena hard rock di casa nostra.
Dopo anni di successi ed esperienze in ogni dove, il buon Del Vecchio proprio agli Edge of Forever fa ritorno, pubblicando un inatteso come back a quasi un decennio di distanza dall’ultima prova in studio. A benedire l’operazione ovviamente Frontiers Music, label che, in un rapporto di reciproco sostegno, è stata sin qui la cassa di risonanza ideale per il talento del polistrumentista lombardo da cui ha ottenuto illimitati servigi in vari ambiti sino a divenirne uno dei principali uomini di “punta”.
Storie piuttosto note, insomma.
Dettagli e spigolature biografiche a parte, converrebbe a questo punto soffermarsi almeno un po’ proprio su “Native Souls”, nuovo prodotto discografico di quella che musicalmente è, a detta dello stesso Del Vecchio, la sua casa naturale.
Considerazione ovvia: ancorché un po’ lontanuccio in termini temporali, il paragone con “Another Paradise” diventa inevitabile e si prospetta quale immediato punto interrogativo cui offrire risposta altrettanto spiccia e veloce.
“Native Souls” è, anzitutto differente. Nei suoni e nelle atmosfere. Più ricercato, ricco di particolari, aperto ad influenze e codici che non vadano nell’unica direzione tracciata dal rock melodico.
Ma soprattutto è un disco che da l’idea di avere una certa maturità alla base, intesa come capacità di amministrare il songwiting in modo da apparire fresco ed attuale pur con evidenti radici ben salde nelle tradizioni.
Non sfuggono infatti, le ampliate doti d’esperienza accumulate dal buon Del Vecchio in sede di composizione: il fondamentale assetto hard rock / AOR assume varie sfaccettature, riferendosi a seconda delle esigenze a muse di vario tipo. Journey, Dokken e Whitesnake mescolati ad un po’ di cromature class metal, lampi scandi rock e qualche sgommata verso il power prog che potrebbe, addirittura chiamare in causa la magniloquenza dei Symphony X (“Take Your Time” sembra un prestito dalle recenti produzioni di Allen e soci).
Menù ricco che sa piacere istantaneamente, complice una produzione accurata ed una verve strumentale di alta scuola.
Gli elementi, pur viaggiando all’unisono, sono tutti ben distinguibili e delineati. Piace moltissimo la chitarra di Aldo Lonobile, noto axeman dei Secret Sphere che in qualche spunto lascia intravedere una insospettabile infatuazione per John Sykes (“Carry On“?); impeccabili Marco di Salvia (Hardline) alla batteria e Nik Mazzucconi – l’unico altro membro rimasto della formazione originale – al basso.
Sorprende poi la voce di Del Vecchio, elemento che si propone ora come punto di forza degli Edge of Forever: finalmente matura, appare ora estremamente solida ed intensa tanto da suscitare paragoni con un autentico totem della scena hard rock come Eric Martin dei Mr. Big.
I pezzi che fioriscono dal menù sin qui descritto confermano in larga parte l’alta opinione che avevamo conservato sin dall’alba dei tempi sugli Edge of Forever, realtà che si dimostra anche in questa occasione l’ambiente ottimale e più adatto per far rendere al meglio le doti ed il talento di Del Vecchio.
Il disco, infatti, non tradisce le attese e piace pressoché nella sua interezza, con picchi di caratura superiore in brani quali “Native Soul“, “Promised Land“, “Dying Sun” e “War”, impeccabili per ricchezza di suono, prestazioni strumentali e fluidità.
Un lieve e quasi impercettibile calo di tensione nella parte finale dell’album, è l’unica – minima – nota a sfavore di un cd che non doppia le valutazioni straordinarie del predecessore solo ed esclusivamente per la mancanza dell’effetto “sorpresa” e per il percorso evolutivo intrapreso nell’arco degli anni dall’hard rock melodico tricolore, in senso ampio, e da Del Vecchio nello specifico.
Ad oggi, grazie proprio ad album come “Another Paradise”, all’esordio dei Lionville, ai vari progetti Shining Lane e Charming Grace che anni fa hanno “segnato” la strada, il classificare un album hard rock / AOR “italiano” tra i pesi massimi del settore non è più un tabù o un evento fuori dalla norma, ma quasi una sentenza naturale.
Parimenti, da Alessandro Del Vecchio abbiamo imparato ad attenderci null’altro che materiale di elevato livello, curato e studiato con perizia, gusto e competenza, ragione per cui l’alto profilo raggiunto anche da “Native Souls“, paradossalmente, non fa quasi nemmeno più notizia.
L’elemento principe che si pone quale “pietra angolare” nella fruizione di un disco fatto di suoni cari al melodic rock – il mero piacere s’ascolto – rimane intatto e privo di esitazioni. Le peculiarità tecniche, la prestanza della produzione, la cura dei dettagli sono ai massimi livelli.
Ok, nessuna sorpresa, siamo d’accordo. Come al solito, tantissima roba…