Recensione: Nature Strikes Back
I Wolfpakk, per i meno informati, sono uno dei tantissimi side project di Micheal Voss e Mark Sweeney, una coppia di tentacolari artisti centroeuropei (tedesco il primo, svizzero il secondo) che pur frequentando in lungo ed in largo le scene heavy-rock ha conosciuto i maggiori successi a cavallo delle band madri, assurte a punti di riferimento alquanto descrittivi: Mad Max e Crystal Ball.
Un bacino da cui attingere molte delle influenze che si sono riverberate all’interno del progetto imbastito congiuntamente già una decina di anni orsono e protagonista sin qui d’un pugno di album improntati ad una “spintissima” classicità heavy-rock-power di radice prettamente europea, di cui “Nature Strikes Back” è l’ultimo (quinto) prodotto della serie.
Un canovaccio consolidato che si perpetua sin dall’esordio datato 2011 e che, al netto di un profilo compositivo scevro da particolari voli pindarici, ha sempre sciorinato una line up composta da una pletora infinita di ospiti illustri, degna di una metal opera in piena regola.
Le note a margine, infatti, hanno puntualmente descritto una nutrita schiera di nomi noti ed arcinoti, spesso tanto cospicua dal risultare quasi impossibile da ricordare per esteso. Scontato quindi, anche in occasione di questa recente uscita edita un paio di mesi fa, reperire tra i crediti un gruppone di guest stars che non accenna ad assottigliarsi nei numeri. Più di trenta musicisti coinvolti, tra i quali personalità d’assoluto prestigio come Michael Sweet (Stryper), Michael Bormann (Jaded Heart), Jeff Waters (Annihilator), Mikkey Dee (Motorhead), Craig Goldy (Dio), Ronnie Romero (Lords of Black) e Joey Tafolla (Jag Panzer).
Risultato garantito? Non è sempre detto…
Un po’ come per le squadre pallonare: avere grandi fuoriclasse in organico, non significa automaticamente vincere ogni competizione. Allo stesso modo, anche per i Wolfpakk avere l’ennesimo stuolo di eccellenze assortite non conduce per direttissima al capolavoro.
Del resto, se a questa pur valida realtà heavy rock continentale non è mai stato riservato molto più di uno spazio appena al di sopra delle retrovie (e nelle memorie degli appassionati) un motivo ci sarà.
Colpa, naturalmente, di un songwriting affidabile ma privo di sorprese. Efficace ma sfornito di “fuochi artificiali”. In altre parole, stereotipato e sin troppo convenzionale.
Un heavy power “caruccio” ma già sentito mille volte, che parte dalle sfumature hard rock dei succitati Mad Max e Crystal Ball, per issarsi sulla scia di Hammerfall e Nocturnal Rites, all’insegna di uno stile certamente di sostanza, con qualche oncia di divertimento, ma con nulla di dissimile da quanto assaporato negli anni, più e più volte.
“Nature Strikes Back” non può naturalmente essere tacciato di nefandezze o brutture: la classe dei musicisti coinvolti mette al riparo in modo netto da ogni rischio.
Ma il mordente, in senso complessivo, non è tuttavia moltissimo.
Belle le voci di Michael Sweet e Ronnie Romero (quest’ultimo, coinvolto in una insipida ballad da b-side, avrebbe potuto essere sfruttato molto meglio), ottimi gli inserti e gli assolo dei tanti guitar hero (oltre ai già citati, ci sono anche Vinnie More e Bruce Kulick, tanto per dire…), ma già dal quinto brano in avanti l’attenzione tende ad affievolirsi: fatta salva la conclusiva e frizzante “Lovers Roulette” e le prime canzoni, piuttosto gradevoli e ben assortite, non resta poi molto spazio ad emozioni particolari. Solo ad una accomodante routine di maniera che non scalfisce, ne nel bene, ne nel male.
Emblematico in tal senso, un pezzo come “Revolution”, brano che stancamente trascina un ritornello ripetuto all’infinito e viene salvato solo in parte dal pregevole solo di mr. Jeff Waters. Un classico esempio di qualità e classe vanificate da un tratto compositivo standardizzato e privo d’inventiva.
L’emblema di un disco che rimane inesorabilmente stritolato all’interno del suo paradosso esistenziale: suonato e confezionato in modo inappuntabile. Ascoltabile, senza dubbio. Per lo più scorrevole.
Eppure molto spesso sterile ed inane, fine a se stesso.
In un’unica sentenza? Dignitoso… ma superfluo.