Recensione: Neaera
Dopo sette anni di preoccupante silenzio, cioè da “Ours Is the Storm” (2013), da tornano i Neaera con il loro nuovo nonché settimo disco, omonimo.
Un’attesa lunga, per una delle due migliori band di deathcore europee – assieme agli Heaven Shall Burn – , almeno a parere di scrive. Scuola teutonica che, a quanto pare, è l’unica capace di sfornare il top per quanto riguarda le più alte vette di qualità tecnico/artistiche del genere, o meglio sottogenere, su menzionato.
Un’attesa lunga, ma che ha consentito ai Nostri di crescere tantissimo. Anzitutto in termini di potenza sonora, assolutamente devastante, annichilente, debordante. Un cambio di marcia notevole, rispetto alle produzioni precedenti, che rende “Neaera” uno degli album più duri e violenti dell’anno da poco iniziato. Inaspettata, anche, la riduzione della componente più orecchiabile, più catchy.
Da qualche parte si è letto l’aggettivo melodico, riferito a loro. Niente di più erroneo. Seppur i passaggi armonici non siano stati del tutto eliminati (‘Catalyst’), il sound del combo tedesco è spaventoso, in quanto a pressione sonora. Decibel e decibel eseguiti con perfezione che travolgono tutto e tutti, pilotati dalla folle macchina da guerra che si chiama blast-beats. Il muro di suono eretto nota su nota dal susseguirsi delle canzoni è davvero granitico, spesso, ampio in tutte e tre le dimensioni spaziali. Quasi fosse un cubo di marmo, giusto per rendere l’idea. Su di esso, le crepe prodotte dai micidiali breakdown, come si sa caratteristica principe dei generi *-core (‘Resurrection of Wrath’).
Il deathcore del quintetto di Münster, seppure fedele agli stilemi di base della tipologia musicale, presenta, rispetto al passato, elementi di novità. Fra i quali emerge con forza uno soltanto ma importante: il black metal. Sì. Black metal. Rinvenibile con facilità in alcune tracce nelle quali si fa strada lo screaming di Benjamin Hilleke, peraltro bravo – anche – nel growling e nelle harsh vocals, tutte presenti per movimentare notevolmente le linee vocali, altrimenti monotone. Chiaramente deathcore è, e deathcore rimane; tuttavia fa molto piacere osservare che, quando si è dotati di talento, si possono mescolare con intelligenza elementi estranei alla solita zuppa (‘Rid the Earth of the Human Virus’).
Questo approccio non convenzionale al deathcore potrebbe indurre a un disorientamento, ma si tratta di una vertigine che sparisce dopo pochi ascolti dell’album. Che, pertanto, mostra nella sua globalità un approccio meno ortodosso e più votato alla ricerca, da parte dei Neaera. Ovviamente ciò non può che far piacere, poiché si percepisce al 100% la voglia della band di creare qualcosa di suo. Un marchio di fabbrica dal disegno originale, non copiato e non copiabile. Virtù primigenia dell’album stesso.
I riff sono giganteschi (‘Eruption in Reverse’), sparati a velocità supersonica con la tecnica del palm-muting, a ricordare la stretta parentela con il thrash. Stefan Keller e Tobias Buck sono due axeman eccellenti. Irreprensibili nella fase ritmica così come in quella solista. Mitragliatrici costantemente ad alzo zero e in perenne funzionamento. Al pari della sezione di spinta, costituita dal rombo del basso di Benjamin Donath e dal drumming sconquassante di Sebastian Heldt.
Ottimo, anche, l’impianto dei brani. Ciascuno dotato di una propria autonoma personalità, legati assieme dalla forza di coesione presente nel full-length. Nel percorso dall’incipit ‘(Un)drowned’ sino alla closing-track ‘Deathless’, l’intensità non cala mai, nemmeno per un secondo. Non un buco, non un passaggio a vuoto, non un filler. Niente. Sintomo di un gruppo in grande forma, compatto, dotato di un’eccellente tecnica che si erge con forza e decisione, come qualità complessiva, dalla marea di proposte similari. In alcuni momenti, poi, si raggiunge lo stato di trance da iper-speed, come nell’apocalittica ‘Sunset of Mankind’ o nella terrificante ‘Eruption in Reverse’. Momenti di offuscamento del pensiero, piacevole escursione mentale sulle montagne della follia.
Sette anni. Valeva la pena di aspettarli. Loro, i Neaera.
Daniele “dani66” D’Adamo