Recensione: Necroceros
“Necroceros” è il quarto full-length degli Asphyx pubblicato dopo la ripartenza… vera, avvenuta a parere di chi scrive con “Incoming Death”, quattro anni fa.
Com’era logico aspettarsi, tutta la rabbia, energia e idee che girovagavano nelle menti dei Nostri durante i lunghi e numerosi mesi di attesa, sono state trasfuse – in quel del 2016 – al 100% nel suddetto CD. Costruendo così un qualcosa di memorabile, fantastico, fuori dalla media del genere, e di tanto.
È ora altrettanto logico, almeno a parere di chi scrive, che il novello LP non possa presentare lo stesso effetto sorpresa di “Incoming Death”, risultando un semplice tassello di una carriera rinata nella sua capacità produttiva. Che poi semplice non è: la classe non è acqua, difatti, e gli Asphyx ne possiedono tanta, sino ai massimi livelli; tanto da essere, sempre e comunque, uno dei migliori act mondiali di death metal.
“Necroceros”, anzitutto, definisce in maniera irrevocabile il marchio di fabbrica del combo olandese, leggibile con facilità a tutte le latitudini. Un merito non da poco, se si pensa alla mostruosa marea di formazioni che praticano il death metal stesso. Anzi, quando nell’arte si raggiunge una forma facilmente individuabile da tutti, universale, ecco allora che viene tagliato il traguardo più complicato ma anche più importante. Gli Asphyx sono gli Asphyx. Sia al Polo Nord, sia al Polo Sud. E questo, in primis, grazie al perfetto matrimonio fra la voce del fenomenale Martin van Drunen e il sound elaborato dagli altri tre componenti della band. Un’unione praticamente unica nella sua dannata efficacia e consistenza che, da sola, forma la struttura portante da cui si diramano le varie song. Paul Baayens, non a caso, è una micidiale macchina da riff da goduria assoluta. Leggermente zanzarosi, gli accordi macinati dalla sei corde coprono un volume di suono immenso, in cui saettano come lame rapidi assoli, per un rifferama anch’esso unico al Mondo. Perfetta anche la sezione ritmica, a volte lenta e veloce allo stesso tempo (‘Mount Skull’), sempre e comunque rispettosa dei dettami di base che impongono un incedere mai estremo, mai esagerato; anzi perfettamente intelligibile anche nei momenti in cui si alzano verticalmente i BPM (‘Botox Implosion’). Molto efficace anche il basso di Alwin Zuur che romba spaventosamente senza soluzione di continuità (‘Yield or Die’).
Più su si è accennato alle canzoni, risplendenti di fervore compositivo. Nel senso che van Drunen e compagni cercano costantemente di diversificare il gusto della pietanza. Riuscendoci. Seppur irreprensibilmente adese al loro inimitabile stile, le tracce si rivelano parecchio diverse le une dalle altre. Circostanza figlia di tanto sale in zucca, di un’inventiva sicuramente rara, capace di sondare, anche, i più scuri anfratti del doom (la suite ‘Three Years of Famine’). Forse inganna un po’ l’opener-track ‘The Sole Cure Is Death’ poiché, pur essendo massiccia e potente, non mostra segni particolari nel mantenersi nella (alta) media delle tracce concepite dal quartetto di Oldenzaal.
Proseguendo il tragitto sino alla closing-track, che è anche la title-track, invece, vengono a galla come sacche d’aria tracce di notevole spessore come, per esempio, ‘Molten Black Earth’, profonda immersione negli incubi più morbosi, o ‘Knights Templar Stand’ e ‘In Blazing Oceans’, accurate dimostrazioni di come devono essere eseguiti gli slow e up-tempo in ambito death. Notevole anche la seconda suite, e cioè la ridetta ‘Necroceros’, visionaria e tetra rivisitazione di luoghi occulti, nascosti, sotterranei, come cripte o catacombe, in cui impera l’odore acre e pungente della putrefazione umana. Il suo crescendo, inoltre, nasconde dei segmenti melodici del tutto inattesi che ne impreziosiscono l’insieme.
In definitiva “Necroceros” è, a tutti gli effetti, un gran bell’album di puro death metal. Gli Asphyx ci sono sempre, quindi. A mulinare il loro inconfondibile stile con voglia, passione, tenacia e qualità.
Daniele “dani66” D’Adamo