Recensione: Necromanteum
Ed eccoli di nuovo, i Carnifex. Stavolta, con un disco intitolato “Necromanteum”, il nono della serie.
Fra i primi a esprimere il concetto di deathcore, la band statunitense ha percorso una carriera piuttosto costante nella generazione discografica. Il che ha senz’altro contribuito loro a diventare una delle migliori realtà odierne nel campo del genere citato.
Anche se ogni tanto c’è stato qualche cambiamento nella line-up, come in quest’ultimo caso, in cui il chitarrista Neal Tiemann ha portato a due il numero delle asce da guerra, i Carnifex hanno sempre svolto ferocia il proprio compito di devastare tutto e tutti. Ma attenzione: si tratta di una svolta importante, quest’ultima, poiché, oltre ad aumentare il numero di idee nella composizione del platter, fornisce al sound un mostruoso impatto frontale.
Impatto reso quasi atmosferico grazie all’apporto notevole del sintetizzatore, in modo da inserire, in modo che si potrebbe anche osare scrivere massiccio, numerosissime parti orchestrate (sic!) come in ‘Crowned in Everblack’, intarsi ambient (‘Infinite Night Terror’), semplici – per modo di dire – tappeti di tastiere atte con dovizia di particolari a inspessire un sound di per sé dirompente per natura (‘How the Knife Gets Twisted’).
Questo nuovo approccio consente al combo di San Diego di evitare di essere un combo, appunto, della serie “picchia duro e basta”. Anzi, la movimentazione musicale indotta dall’utilizzo più invasivo del ridetto sintetizzatore ha consentito a Scott Lewis e compagni di realizzare un’opera variegata, visionaria, meno ostica da digerire, più piacevole da ascoltare. Benché, non bisogna mai dimenticarlo, “Necromanteum”, in un’ipotetica scala da uno a dieci della violenza musicale, si assesterebbe se non al numero più alto, a quello immediatamente inferiore.
A proposito di Lewis, ancora una volta bisogna rilevare il grande talento che filtra da intricate linee vocali, interpretate con rara maestria nel continuo passaggio fra growling, screaming e harsh vocals. Una maestria che rende le linee vocali stesse univoche, coese, nel senso che non si percepisce assolutamente questo sempiterno cambio di approccio canoro. Se non, volendo essere più precisi, dando a esso la dignità, quasi, di uno stile a sé stante: lo stile-Lewis.
Con un vocalist simile, contemporaneamente duttile e malleabile, è chiaro che ne guadagna il sound in generale. Il quale, grazie a una produzione assolutamente perfetta, spruzza metallo rovente a forma sferica, a mò di fuoco d’artificio, per giungere a essere uno delle emnazioni di deathcore più terremotanti del globo terracqueo. Spaventosi i breakdown, sparsi qua e là per far saltare in aria le budella. Come spaventoso il muro di suono che le due già citate chitarre riescono a erigere verso altezze in cui l’aria è rarefatta. Con l’aiuto del basso di Fred Calderon, la cui potenza è debordante come la sua precisione, e il drumming forsennato di Shawn Cameron, colpevole delle produzioni tastieristiche più sopra descritte ma distruttore totale delle membrane timpaniche.
Grande tecnica esecutiva, insomma, ma anche una buon senso compositivo che si materializza in dieci canzoni ben separate fra loro da una personalità singolare che, però, come in una rete neurale, condividono collettivamente lo stile del gruppo americano, dipinto con maestria dagli attori con così tanti particolari da essere diventato praticamente unico nel suo genere.
Come si sa, la melodia non è molto gradita, qui. Purtuttavia i brani scorrono via con scioltezza e, in primis, con ciò che si chiama naturalezza. Il che parrebbe assurdo, data la mostruosa dose di watt in gioco. E, ultimo ma non ultimo, con gusto. Il che è un altro punto a favore dei Nostri.
Il deathcore, i Carnifex, “Necromanteum”.
Daniele “dani66” D’Adamo
