Recensione: Necropolis

Di Stefano Ricetti - 21 Luglio 2018 - 12:30
Necropolis
Band: Godwatt
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2018
Nazione:
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75

C’è poco da fare: una nazione come la nostra, bistrattata quanto si vuole, in termini di storia non ha da invidiare niente a nessuno. Se poi questa storia la si declina in ambito cimiteriale lì, per davvero, agli altri restano solo le briciole. L’Italia degli antichi borghi, anche i più sperduti, è pregna di leggende, spesso dall’epilogo tragico e si sprecano i racconti che affondano nel passato e che ancora oggi sanno incutere terrore, se rappresentati nella giusta misura. Orbene, anche a livello musicale, quando ci si addentra nelle nere viscere dell’Acciaio, abbiamo saputo dettare legge a livello internazionale, quantomeno sul piano artistico. Basti citare solo tre realtà, che hanno segnato profondamente il Metallo Oscuro dalle nostre parti ma non solo: Death SS, Paul Chain/Paul Chain Violet Theatre e Requiem/The Black. Su quello commerciale il Bel Paese viceversa ha inesorabilmente pagato pegno per le sempiterne latitanze che è inutile rivangare anche in questa sede, ossia la recensione di Necropolis.

L’album, il sesto in carriera dei Godwatt, come il precedente L’Ultimo Sole del 2016, vede la luce per la Jolly Rogers Records e si accompagna a un booklet di otto pagine con tutti i testi e una grafica accattivante, benché minimale. I frusinati, due volte frequentatori dell’Acciaio Italiano Festival – da rimarcare la loro consistente prova alive anche quest’anno, fra le mura dell’Arcitom di Mantova – inanellano nove pezzi per una durata complessiva di tre quarti d’ora abbondanti di musica.       

Il doom proposto dal trio affonda nelle carni putride degli anni Settanta e vi alberga allegramente, si fa per dire. L’opener strumentale “Necropolis” è lì apposta da vedere, ops… sentire, of course. In “Morendo” irrompe il cantato in italiano di Moris Fosco ed è amore a primo ascolto, o quasi. La sua mannaia non lascia prigionieri ed il resto se lo smazza la premiata coppia Mauro Passeri (basso)/Andrea Vozza (batteria), con la giusta attitudine. L’incedere tradizionale e tradizionalista del suono della chitarra rappresenta il trademark dei Godwatt che invero si concedono lungo il percorso tracciato con Necropolis qualche leggera virata con le successive “Tra Le Tue Carni”, ariosa, quantomeno rispetto alle altre canzoni e “Tenebre”, di certo meno cupa del titolo che porta stampato in fronte. Per il resto è una scorpacciata di Doom di quello nero pece, zanzaroso quanto basta e debitore del Black Sabbath style, vedasi anche alla voce numero otto: la liquida R.I.P.        

Va reso merito ai Godwatt di avere trovato la giusta alchimia fra l’idioma nazionale e le sonorità provenienti dall’oltretomba, tanto che, alla luce dello scriba, il gruppo laziale si inquadra più come una realtà di prospettiva, nonostante gli enne album sul groppone e una storia ultradecennale. Se sapranno sviluppare questo felice connubio con delle soluzioni più personali i prossimi anni staremo a narrare le gesta di un ensemble in grado di raccogliere lo scettro dei nostri grandi interpreti del settore, sopra menzionati.      

Necropolis: un album che non passerà inosservato, anche per via della copertina particolarmente azzeccata.  

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

 

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