Recensione: Necrospire
Tenendo fede alla tradizione statunitense in materia di death metal, gli I Killed Everyone si mostrano agguerriti e determinati al massimo per perseguire il loro scopo. Cioè, straziare con la massima potenza e precisione possibile i timpani dei fan del metal estremo. Una volontà che dire evidente è poco, scorrendo la lista della loro produzione discografica. Dal 2008, anno di nascita, si possono mettere in fila, infatti, due EP (“With Destruction, Comes Creation”, 2009; “The Last Breath Of A Dying World”, 2010), un demo (“The Great Defamation”, 2011) e due full-length (“Dead Peasants”, 2012; “Necrospire”, 2013).
L’ultimogenito, da oggi sugli scaffali dei negozi di dischi con il marchio Pavement Entertaiment, giunge in un momento di buona vena del sottogenere praticato dal combo di Addison: il deathcore. Heaven Shall Burn, Whitechapel, Neaera e All Shall Perish sono, difatti, per fare alcuni esempi, band sulla cresta dell’onda che sfornano ottimi album e mettono a ferro e fuoco gli stage in giro per il Mondo.
Un deathcore, qui, violentissimo, possente all’inverosimile, devastante. Scevro dal benché minimo richiamo melodico, anzi arcigno e dissonante grazie, ma non solo, al terribile growling di Tim O’Brien; in realtà più tipico, per via dell’inhale e delle conseguenti… ‘suinate’, al brutal. La matrice *-core, tuttavia, presenza rilevanza assoluta, nel sound dei Nostri, evidenziata dalla caratteristica, gigantesca muraglia fonica eretta dall’intreccio dei riff di chitarra, la cui timbrica è ovviamente compressa e stoppata dal palm-muting; dal taglio aspro, asciutto e tagliente della produzione e, ultimo ma non ultimo, dal susseguirsi fra gli abissali rallentamenti dei breakdown e le assurde accelerazioni dei blast-beats.
L’effetto complessivo, a onor del vero, non è molto originale e anzi, a parte la desueta accoppiata inhale / *-core, rientra in tutto e per tutto nei dettami canonici dello stile musicale in parola. Anche se, ad aiutare un po’ la formazione dell’Illinois a plasmare una sua personalità, c’è un piacevole in quanto sottile mood tetro e oscuro a fare da opprimente compagno di viaggio. Infatti, per ciò, “Necrospire” riesce, con la musica, a rendere mentalmente concrete le arcane e maligne atmosfere ottimamente raffigurate nella copertina del CD.
A chiarire questa sensazione ci pensa l’opener “A Sanguinary Mass”, il cui incipit è foriero di cupi presagi, spazzati però via da un sound travolgente, dalla sua energia senza fine, annichilente nel suo incedere distruttivo. Incedere reso insostenibilmente pesante dalle asfissianti decelerazioni degli stop’n’go iperbarici, alimentati dalla sezione ritmica composta dal basso di Jason Cordero e dalla batteria di Tom Salazar. La quale, nella successiva “Grimoire I – Eviscerated”, si produce in efferate progressioni velocistiche sì da dare, davvero, in questo caso, l’idea degli spaventosi eccessi del brutal death metal. Le successioni delle ondate dei blast-beats suonano come schiaffoni in piena faccia, quasi chiamati per questo dalle allucinanti linee vocali di O’Brien, comprensive – pure – di folli scream. La quadratura del sound dei I Killed Everyone, tuttavia, non muta di un millimetro al susseguirsi delle song; fornendo con ciò ottimo materiale per garantire la stabilità e continuità stilistica ma, anche, carburante per una noia che, abbastanza presto, non manca di farsi sentire fra un breakdown e l’altro di “The Devourer Beyond”. L’essersi così concentrati sull’aspetto… ‘culturistico’ del proprio sound, a parere di chi scrive, ha un messo in secondo piano la canzone in senso stretto; quasi che essa sia solo un mezzo per mostrare i muscoli il più tirati a lucido possibile. Senza, cioè, averne curato la forma e l’armonia per dar luogo a un lavoro equilibrato e piacevole sotto tutti i punti di vista; e non solo quelli direttamente riconducibili al testosterone.
Per questo, pur essendo un’opera in cui la perfetta tecnica esecutiva e la feroce risolutezza messa giù dai I Killed Everyone determinino un impatto dalla rara intensità sonora, “Necrospire” non può andare oltre a una più che abbondante sufficienza in virtù di un songwriting sostanzialmente monocorde nei contenuti. Un’opacità artistica pericolosa, poiché è quella che decreta, spesso e volentieri, la permanenza in un anonimo, impersonale – seppur dorato – underground.
Daniele “dani66” D’Adamo
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