Recensione: NekroRegime
Himmelstrasse, la via del paradiso. Che, in realtà, portava all’inferno.
E lì, all’inferno, che vogliono portare tutti, gli svedesi Omnizide, con il loro nuovo nonché secondo album in carriera, “NekroRegime”. All’inferno passando per la guerra. Come da stile, dichiarato war metal, richiamando altresì come metri di paragone i Naglfar e i Watain.
A proposito di stile, il vocalist Mikael Nox (Craft, Nidhöggr, ex-Belzen) e i suoi accoliti, non paiono prendere posizione fra il death e il black metal; restando, come si può dire, sospesi fra uno e l’altro. Siccome ciò non può essere, giacché una foggia musicale deve comunque essere chiara se non si vuole essere soltanto caotici e confusionari, allora è preferibile accostare ai Nostri il black metal.
Black metal raw, scarno, grezzo, rozzo, cioè. Senza alcun fronzolo, diretto solo e soltanto a mietere vittime. L’ugola dello stesso Nox è stata lavorata con la carta di vetro a grana grossa, prima essere data in pasto al microfono. Così come tutto il resto della banda. Impegnata a suonare una tipologia artistica che sia quanto più possibile frontale e diretta, dimenticando (volutamente), nel contempo, nel modo più assoluto, trent’anni di evoluzione metallica.
Non che il quartetto di Dalarna sia scarso, dal punto di vista tecnico. Anzi, la padronanza degli strumenti da parte dei Nostri non è indifferente, dato atto – anche – del loro background culturale. Tanto è vero che il marchio di fabbrica di “NekroRegime” è riconoscibile con una certa facilità. Sintomo che gli Omnizide sono stati capaci, bene o male, di identificare una forma musicale tutta loro. Appositamente calibrata per essere la più semplice e immediata possibile.
Di più, però, non c’è nulla. Cercando con così tanta determinazione di picchiare e basta, alla fine, nel disco, ciò che è mortale è la noia. Sì, si batte il piede, e con soddisfazione, quando si scatenano i blast-beats primordiali di ‘Shockwaves’, per esempio. Nondimeno, è pure vero che i tentativi di approfondire e/o inspessire il lato meramente armonico, che tocca le corde dell’inventiva, vengono fuori song come ‘Devil in Me’. Clamorosamente vuote e inutili, per meglio dire. Pochi accordi raggranellati nelle pieghe del tempo, davvero troppo scheletrici per richiamare un minimo di interesse.
Anche in questo caso si tratta di una circostanza voluta, più che una carenza compositiva, tanto è vero che basta solo arricchire la pietanza con un pochino di melodia (‘Deathwomb’) per risollevare immediatamente le sorti del platter.
Il quale, tuttavia, risulta nel complesso tedioso e privo di sorprese. Già dopo pochissimi ascolti si è sentito tutto ciò che c’era da sentire. Il che non va bene. Per niente.
Tempi duri, per una delle Patrie del metallo oltranzista.
Daniele D’Adamo