Recensione: Neon Graves
Dopo l’ottima fama a livello underground che ha avuto il debut-EP omonimo (2017), giunge per i lanciatissimi Goregäng il momento del debut-album, “Neon Graves”. La band si è formata nel 2016 per cui si può dire che abbia bruciato le tappe, arrivando subito al sodo senza perdersi per strada.
Come sta accadendo da qualche anno a questa parte, soprattutto negli Stati Uniti, c’è un ritorno alle sonorità originali del death metal. Quella che, cioè, viene definita vecchia scuola. Si tratta di un processo ambivalente nel senso che, se una parte si mantiene vivo ciò che il genere ha proposto a cavallo degli anni ’90, dall’altro conduce a trovarsi di fronte a formazioni che hanno una scarsa personalità. Poco da dire, insomma, quando tutto è già stato detto.
Il combo della Florida si colloca a metà degli opposti anzidetti poiché, di suo, in “Neon Graves”, inserisce sonorità death’n’roll e crust che, seppur parzialmente, pompano nuova linfa nelle sue stantie membra. Donando così, all’insieme, un discreto spessore dovuto alla secchezza tipica del crust stesso unitamente al ritmo trascinante del rock’n’roll. Anche il mood non è male, indicativo di emozioni forti, lucide, tagliate con la precisione di un bisturi. Come dire, un umore tetro ma non troppo, reso a tratti addirittura piacevole per via di una buona dose di scioltezza e linearità (‘Cathedral of Chemicals’). Si batte il piede per terra con gusto e soddisfazione, insomma. A proposito di ritmo, Taylor Nordberg propone dei pattern legati, e molto, al ridetto rock’n’roll. Drumming semplice e lineare, che non perde un colpo, scoppiettante in ogni occasione, anche se non mancano furibonde accelerazioni che varcano i confini dei blast-beats (‘Spray of Teeth’).
Il risultato finale è più sufficiente, nel senso che lo stile che ne esce fuori ha una sua ben definita personalità ed è indicativo di una precisa foggia musicale. Non si può certo parlare di originalità ma, almeno, si ha fra le mani qualcosa di ben definito, tosto, adulto. Così come il sound, preciso, immutabile al variare delle canzoni, ben disegnato che, perlomeno, mostra con naturalezza di essere riuscito, già con il disco di debutto, a evidenziare un marchio di fabbrica definito al 100% in tutti i suoi particolari.
Un problema che assilla il full-length c’è, però. Come accade molto di frequente per il death d’annata, le song tendono a somigliarsi le une alle altre. Quasi come se lo sforzo compiuto per dar vita a un sound vivo e pulsante togliesse creatività e idee per la composizione dei singoli brani. Si instaura, quindi, in chi ascolta, l’assenza di aspettarsi qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, una volta terminato l’assaggio di una traccia per passare a quella successiva. Venendo così a mancare l’effetto sorpresa. Circostanza pericolosa che può fornire la presa ideale per le grinfie mortali della noia.
Malgrado qualche inserimento ambient (‘Plague of Hammers’) teso a inspessire un’emotività altrimenti piatta, la tendenza sopra citata attanaglia anche “Neon Graves”, incapace di regalare ai fan qualcosa in più di un mero compitino, benché svolto bene, con diligenza e professionalità ineccepibili. Anche ripetendo ad libitum i passaggi, non resta poi molto, da ricordare per i tempi che verranno.
Con che, relegando il combo della Florida e il suo lavoro nella ristretta cerchia degli appassionati del genere, risultando quest’ultimo inevitabilmente tedioso per coloro che amano abbracciare il metal estremo a 360°, soprattutto se tendente a innovazione e spirito evoluzionistico.
Daniele “dani66” D’Adamo