Recensione: Never Say Die
Recensire un album dei Black Sabbath è come cercare di descrivere un qualcosa di magnifico facendo molta difficoltà a trovare parole adeguate per descriverne l’essenza. I Black Sabbath, infatti, sono qualcosa che va oltre l’essere band hard rock o heavy metal, a seconda dei punti di vista. Sono stati un simbolo, una conquista per la musica, una sfida per i musicisti che si sono avvicendati nel corso degli anni alla corte di Tony Iommy. Lo sono stati fin dal loro primo, bellissimo, album di debutto segnando uno spartiacque definitivo tra quello che l’hard rock era stato e quello che heavy metal sarebbe divenuto (grazie ai successivi albums). La line up “storica”, incontro di personalità d’elevato spessore artistico, ha significato così tanto per il panorama hard’n’heavy che ancora oggi è stesa sulla band un aurea di quasi religioso ossequio. Il disco che qui recensiamo è probabilmente quello meno capito da alcuni, meno “consumato” da altri, meno apprezzato forse dai più. Le ragioni di questa diffusa perplessità nei confronti di questo album possono essere ascritte a più motivi sia di natura compositiva sia di tecnica strumentale: infatti il disco si discosta in maniera evidente dai bellissimi lavori precedenti, spiazzando notevolmente l’ascoltatore fin dalle prime song.
L’apertura è affidata a “Never say die”, la title track appunto. La song presenta un ritmo sostenuto ed un riff molto accattivante incentrato su di una melodia semplice e orecchiabile allo stesso tempo. Si nota subito al primo ascolto l’intenzione principale della band, ovvero quella di discostarsi dalle sonorità dei precedenti lavori per approcciarsi al loro sound in maniera più diretta possibile, con riffs melodici e arrangiamenti in qualche modo più articolati. In effetti il tentativo di costruire un nuovo sound per la band , all’ascolto di questa prima track , sembra centrato. La seguente “Johnny Blade” riposiziona le coordinate sonore della band sui lidi cari alla band delle precedenti release, senza per questo rinunciare al tentativo di “modernizzare” il sound primordiale del combo. Il risultato è un buon brano che alterna fasi più “black sabbath style” (se così si può dire) a fasi di più accessibile impostazione musicale. La voce è sempre quella di Ozzy, ogni aggettivo di descrizione della prestazione canora del “madman” sarebbe superflua. “Junior’s eyes” , terza song , si districa attraverso soluzioni armoniche delle più varie, il tutto trovando sintesi ottimale nel refreain molto accattivante e ben costruito. Molto bravo Iommi ad arricchire con mai supeflue armonizzazioni la struttura della track, donandole ulteriore godibilità. La seguente “A hard Road” è una song con ritmiche leggermente sostenute, con un riff sempre melodico e come al solito arricchito dalle puntuali “incursioni elettriche” di Iommi che anche in questo caso risultano essenziali nell’impianto complessivo della song. L’unico difetto del brano è forse l’eccessiva ripetizione del refrain principale, lasciando il dubbio di un lavoro “incompiuto” da parte della band in fase di composizione. La band, come ho avuto modo di spiegare prima, in questo album ha tentato di “arricchire” il proprio sound senza per questo snaturarlo, salvo talvolta ritornare sui propri passi per “approfondire” il discorso musicale sino ad allora compiuto. Ebbene con la seguente “Shock Wave” abbiamo un chiaro esempio di come la band non rinunci alla propria specificità, al proprio modo di approcciarsi alla musica hard rock, sfoggiando una composizione che sarebbe potuta essere scritta in uno qualsiasi dei precedenti dischi.
La sesta traccia, “Air Dance”, è un pezzo molto particolare e rappresenta un altro momento di distacco dalle classiche sonorità del combo, avventurandosi in riff prima leggermente sostenuti per poi lasciar spazio a sonorità che spaziano dal “hard rock” a situazioni vagamente jazz o addirittura “ambient”. La track è impreziosita da discrete incursioni pianistiche, mai superflue e spesso ben inserite nella struttura del pezzo. Il disco ormai viaggia su queste coordinate musicali, lo dimostra infatti la seguente “Over to you” che sembra riprendere il discorso musicale accennato dalla precedente song il tutto come al solito in un alternarsi, elegantemente arrangiato, di atmosfere. Il disco volge al termine e i Black Sabbath, con la penultima “Breakout”, provano ad osare nella loro ricerca stilistica e strumentale ricorrendo all’ausilio di una sezione fiati. La song in questione è strumentale ed è incentrata su ritmiche molto cadenzate, un riffing cupo e quasi “claustofobico” e appunto una sezione fiati (composta da trombe, tromboni e un sax tenore) che , paradossalmente, ne accentuano la pesantezza. In chiusura, “Swinging the chain” (con alla voce Bill Ward) presenta un insolito incontro tra sonorità tipiche del combo britannico, costruite ancora una volta su riff cupi e minacciosi, e una sezione fiati. L’esperimento risulta alquanto riuscito per una delle song che mi ha destato più stupore dell’intero disco. La track ha una ritmica che in una prima parte ha un andamento cadenzato e un riffing su tonalità basse, donando al pezzo quella sensazione di cupezza che solo una band come i Black Sabbath sanno solo creare, in più si inserisce una sezione di fiati, quasi a fare da contrasto, creando (quasi paradossalmente) una felice incontro tra sonorità e impostazioni musicali diverse. Il pezzo cresce, sembra quasi che sviluppi in progressione tutta la forza di questo esperimento, fino al momento in cui assistiamo ad una maestosa chiusura (in fading) del brano con l’esecuzione di un riffing trascinante e pesante allo stesso tempo.
In conclusione questo “Never say die” è un disco particolare, probabilmente il meno assimilabile della band, ma che rappresenta un timido tentativo di sperimentazione non sempre degnamente approfondito. E aggiungo, l’acquisto è consigliato, ma non è d’obbligo.
Filippo “Oldmaidenfan73” Benedetto
Tracklist:
1)Never say Die
2)Johnny Blade
3)Junior’s eyes
4)A hard road
5)Shock Wave
6)Air Dance
7)Over to you
8)Breakout
9)Swinging the chain