Recensione: Never Say Surrender

Di Andrea Loi - 11 Agosto 2007 - 0:00
Never Say Surrender
Band: Red Dawn
Etichetta:
Genere:
Anno: 1994
Nazione:
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90

Dopo il Santo Graal dell’ AOR, quel “Loud and Clear” dei Signal di cui si è favoleggiato anche a queste latitudini, è la volta dell’unica testimonianza artistica (anche per loro…) di questi Red Dawn, gruppo americano – per la precisone di New York – che guidati dal talentuoso tastierista David Rosenthal (in passato anche alla corte di Richie Blackmore), seppe distillare in dieci tracce quello che a tutti gli effetti rappresenta uno dei più significativi momenti che l’hard rock di stampo melodico ha saputo mai regalarci.

Seducenti refrain e intriganti melodie, trasmettono grandi suggestioni emotive per tutta la durata di un disco che, in un vorticoso salto temporale, pone questa release intorno a metà anni Novanta, risultando debitrice degli splendori e delle architetture proprie degli eighties, decennio dove l’hard rock di lusso si impregnava di un climax la cui magniloquenza e l’enfasi delle composizioni recitavano un ruolo da protagonisti assoluti.
Questo full-lenght ricevette infatti notevoli attestazioni di stima, ma purtroppo l’indifferenza del grande pubblico fu qualcosa di altrettanto tangibile, tanto che oggi è molto difficile venire in possesso di una copia del qui presente ‘Never Say Surrender’.

Caratterizzato da tutte quella serie di pilastri cardine che da un disco votato alla melodia ci si deve aspettare (dove a primeggiare sono i sontuosi arrangiamenti e la potente voce di Larry Baud, singer dotato di grande carisma e da un timbro vocale debitore in parte alla scuola che ha visto David Coverdale quale massimo rappresentante), il minimo che si possa fare oggi è riportare alla luce (e non solo all’ attenzione degli appassionati), un’ autentica gemma impregnata di un AOR di assoluto spessore artistico, che sfortunatamente allo stato attuale delle cose, non ha ancora beneficiato della classica e doverosa reissue in grado di dare una meritata visibilità a dischi di questa portata.

Tutte le songs pescano dalla più nobile tradizione Aor/ Pomp, ove i mirabolanti virtuosismi strumentali dello stesso Rosenthal, contribuiscono ad arricchire strutture sostenute e grandiose, in possesso di elaborate e avvincenti trame strumentali.

Il trittico di apertura è la sintesi di tutto quanto detto finora.

La Survivor-oriented “Liar”, il cui epico chorus è supportato da poderosi riff chitarristici, è una delle massime espressioni di quel sound magniloquente di cui si diceva prima, splendidamente arricchito da un refrain in grado di sedurre e ammaliare l’ ascoltatore e con la prerogativa di poter competere con nomi ben più osannati e blasonati.
Dalle prime note di “Flyin’ High”, superba nelle backing-vocals, nel roboante cantato di Baud, quanto nelle sfarzose parti strumentali (dove le Keyboards assurgono, come poche volte mi è capitato di sentire, ad un ruolo di primo piano che permettono loro di rivaleggiare con la chitarra di Tristan Avaikan), è evidente l’atmosfera da super-produzione e da grande “kolossal”.
“I’ll Be There” è poi l’ anthem che avremmo sempre voluto sentire.
Energico e melodico, è l’archetipo di ciò che si intende per armonia musicale: struttura
avvincente in stile prettamente arena-rock, è forse il momento con le maggiori suggestioni assimilabili al big-sound degli stessi Signal.
La sfarzosa “Dangerous Child” dalle sontuose fughe tastieristiche e dal sapore barocco, tiene viva l’ attenzione; è uno dei brani più heavy del lotto, in grado di esprimere una coralità strumentale di grande effetto con delle reminiscenze che riportano direttamente al supremo “Sahara” degli House Of Lords.
“Promises” è quindi la ballad “strappalacrime” che aspettavamo dopo i primi venti minuti al cardiopalma: Baud si cala perfettamente nella parte, offrendo una interpretazione sofferta, straziante e dalla vena vagamente malinconica in pieno Foreigner-style.
Ma è la curiosa ”I Can’t Get Over You” a evidenziare il variegato background dei musicisti: meno convenzionale rispetto alle atmosfere tipiche del disco, dimostra come il gruppo sappia esulare anche da schemi più standardizzati, anche se questo, a volte, può voler significare la presenza di un mid-tempo come “Christine”, quasi una divagazione, per altro accettabilissima e comprensibile, rispetto ai propositi dell’ album.
“Take These Chains” ci riporta nuovamente su registri romantici di derivazione Journey / Survivor, mantenendosi su livelli di pregevole fattura perché, lo ripetiamo, la voce di Baud si arrocca su livelli eccelsi e di grande suggestione.
Una song come “She’s On Fire” tradisce infine anche un’ anima più tipicamente class-metal dal sapore fiero e cadenzato, che comunque rappresenta una delle sfaccettature del sound del gruppo, contribuendo a completare il quadro sonoro arricchito dal pezzo conclusivo che identifica anche il titolo all’ album: è l’ ennesimo anthem che non avrebbe sfigurato in trasposizioni cinematografiche che hanno fatto la fortuna di molte bands nel corso degli anni Ottanta.

Se siete alla ricerca di questo album potreste avere non poche difficoltà nel reperirlo.
Su E-bay si trova (raramente) a quotazioni importanti.
Non mi sento di incoraggiare follie, ma sappiate che questo platter è un altro degli “obbligatori” a cui ogni fan del genere deve prestare la giusta attenzione.

PS:
Cliccando a questo indirizzo, direttamente dal sito ufficiale di David Rosenthal, potrete sentire degli mp3 dell’ album recensito

Line Up:

Larry Baud – Voce
David Rosenthal – Tastiere
Tristan Avakian – Chitarra
Chuck Burgi – Batteria
Greg Smith – Basso

Tracklist :

1. Flyin’ High (05:45)
2. I’ll Be There (04:11)
3. Liar (03:23)
4. Dangerous Child (06:17)
5. Promises (05:36)
6. I Can’t Get Over You (05:39)
7. Christine (04:05)
8. Take These Chains (05:02)
9. She’s On Fire (05:23)
10. Never Say Surrender (04:51)

Andrea “ryche74” Loi

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