Recensione: New Eyes
Crockett e Tubbs, le Reebook e le Timberland.
Il Commodore 64, Ritorno al Futuro, gli Uni Posca e le PaperMate…
E poi, le cabine del telefono a gettoni, il Nintendo, Super Mario e le cassette musicali.
L’uomo Tigre, Rocky, Mazinga, Ralph Macchio e Karate Kid.
Nostalgia…
Gli anni ottanta, quell’epoca dorata in cui i buoni sentimenti si mescolavano ad un po’ d’ingenuità, i cattivi venivano sempre sconfitti, “digitale” era un termine alieno a qualsiasi livello e la musica riservava sorprese costanti. Andavano di moda l’AOR, il synthpop e la synthwave, generi che ora sono diventati di nicchia. Qualcuno, come la synthwave, persino dimenticato o relegato – per chi c’era – a consunto ricordo legato alla colonna sonora di qualche vecchio film.
Ad esser sinceri, fa un effetto piuttosto strano ascoltare oggi, nel 2018, un gruppo di recente costituzione che sembra essere stato scongelato dopo un’ibernazione durata una trentina d’anni. Una sensazione agrodolce, se vogliamo: melodie che mescolano orecchiabilità con un cocktail “scenografico” dall’impatto suggestivo e totalmente demodé, probabilmente anacronistico, eppure imbevuto di un’atmosfera che è, insieme, ricreativa, fascinosa ed in qualche modo tanto malinconica.
Li avevamo già conosciuti un paio di anni fa – era il 2016 – in occasione dell’uscita rigorosamente autoprodotta dell’interessante “Vanishing“, e già allora ci eravamo chiesti come mai, una label come Frontiers, non ci avesse mai fatto un pensiero. Detto fatto, ecco qua: i Magic Dance, realtà SynthAor nata a Long Island nel 2012, sbarcano sui prolifici canali dell’eccellente label partenopea per quello che è, a conti fatti, il terzo full length prodotto in carriera.
Nemmeno poi corretto definirla “band”: i Magic Dance, in effetti, sono il progetto solista di John Siejka, artista americano di origini greche che, con tutta probabilità, vive il proprio quotidiano nel mito assoluto degli anni ottanta. Ce lo immaginiamo vestito come Marty McFly mentre incide le proprie audio cassette nel salotto di casa…
Ciò che scaturisce in musica, del resto, è proprio quello che ci si potrebbe aspettare da un album se il tempo si fosse cristallizzato, come per incanto, nel 1985. Un riassunto di quello che è stato l’AOR spinto sul versante pop di quegli anni; un condensato di melodie che possono rimembrare trasversalmente Survivor, Toto e Danger Danger, ma pure A-ha, Howard Jones e Tears for Fears, laddove le chitarre confluiscono in armonie molto easy listening dal sapore altamente radiofonico e l’accento è sempre posto sulla melodia unita all’arrangiamento cromato e scintillante.
Per chi quell’epoca la ricorda, in qualche modo l’ha vissuta o ne percepisce ancora il meraviglioso fascino, un autentico viaggio nel tempo, una specie di sogno ad occhi aperti che a tratti sa rivelarsi rinfrancante nell’intento dichiarato di resuscitare sensazioni perdute nelle pieghe della memoria.
In ugual modo però, uno sguardo un po’ nostalgico e carico di malinconia verso un periodo storico decisamente più ottimista, positivo e colmo di belle speranze rispetto a quello attuale, così diverso e distante nelle sensazioni tanto da apparirne quasi l’opposto.
Il limite – grosso – di un album come “New Eyes” è proprio il proporsi come drammaticamente ancorato al passato. Vicino quindi, ad un pubblico che in qualche modo deve per forza possedere chiuse nella memoria “immagini” consone al tipo di melodie ed emozioni che vengono suggerite, con il rischio concreto di essere accolto con favore solo da un ristretto novero di nostalgici che sa ancora apprezzare e cogliere il valore di un prodotto di tali fattezze.
Canzoni come “These Four Walls“, “Cut Beneath The Skin“, “Looking for Love” e “Better Things” le avremmo viste alla perfezione nelle colonne sonore di film come “Splash“, “Mannequin” o “La Donna Esplosiva” (chi se li ricorda?!?), tanto ricalcano e respirano atmosfere e suggestioni appartenute all’immaginario eighties.
Siejka non è un grandissimo cantante, va detto, il timbro della sua voce non è nulla di così superiore o irripetibile, mentre il puro aspetto artistico centra l’obiettivo, fornendo tutto quello che serve nel rendere il disco inappuntabile sotto il profilo della resa sonora e della prestazione tecnica.
Tuttavia il nocciolo di questo “New Eyes” non risiede nella mancanza totale di assolo o nella presenza di riff più o meno ficcanti, quanto nello spirito di cui è pervaso in tutta la sua interezza, riverbero di un periodo che, come un effetto morgana, appare in lontananza con contorni indefiniti, quasi irreali, per poi dissolversi dopo pochi istanti, in un orizzonte ormai lontano ed inafferrabile.
Bello, attraente e fascinoso per chi gli anni ottanta li ha conosciuti. Probabilmente innocuo, superfluo, magari un po’ tedioso e privo di senso compiuto per tutti coloro che della “cultura” eighties hanno sempre e solo sentito parlare ma, essendo “figli” di altre epoche più recenti non ne hanno mai conosciuto da vicino le caratteristiche peculiari.
Noi, per ovvie ragioni, stiamo dalla parte dei primi.