Recensione: Nightcall Comes From The Forest
Nightcall Comes from the Forest costituisce il primo vero e proprio album dei blackster pugliesi Full Moon Ritual. Del loro demo intitolato Summoning a Cursed Moon, risalente all’anno scorso, avevamo detto che rimaneva pericolosamente in bilico tra il tradizionalismo black e il manierismo: dall’album seguente si auspicava quindi una maggiore personalità.
Andiamo quindi ad esaminare questo disco, vero e proprio banco di prova per i FMR. L’artwork oscuro e glaciale, simile a quello del demo, presenta visivamente le otto tracce, dalla durata molto variabile per un totale di una quarantina di minuti. Quaranta minuti di sound sporco e gelido, come quello di Summoning a Cursed Moon: la differenza maggiore è qui data dalla batteria, i cui suoni sono regolati in modo approssimativo: la gran cassa è a malapena percettibile, mentre il volume di rullanti e i piatti, all’opposto, è eccessivamente alto e urta le orecchie dell’ascoltatore. Le due chitarre passano spesso in secondo piano, anche a causa della voce, che le sovrasta spesso e volentieri. Per quanto riguarda il basso, bisogna fidarsi della band che lo dichiara presente: all’ascolto, esso è invece totalmente inudibile. Ne risulta un suono estremamente secco, che alla lunga può essere fastidioso se ascoltato in cuffia ed è comunque troppo caotico per essere ascoltato su uno stereo: un passo indietro rispetto a Summoning a Cursed Moon, che era sì caratterizzato da un sound tipicamente norvegese anni ‘90, ma molto più uniforme e bilanciato.
Dal lato compositivo si può osservare come l’album sia sostanzialmente diviso tra parti mediamente veloci e martellanti e parti lente e cadenzate. Tuttavia la varietà ritmica è limitata, fondamentalmente, a due soli ritmi, il che costituisce il più grande difetto dell’album. Ciò è evidente soprattutto nelle parti lente, che non si riesce a non definire noiose. Terribilmente noiose. La loro sostanziale mancanza di originalità, unita al fastidioso suono della batteria, risulta purtroppo letale, tanto da mettere seriamente in difficoltà l’ascoltatore che vuole arrivare alla fine del disco. I FMR sembrano tuttavia non accorgersene e calcano la mano, volgendo pure le canzoni dal ritmo più sostenuto in una tetra marcia sonnifera. È il caso della prima traccia, The arrival of the plague, che parte vigorosamente per poi subire dei rallentamenti nella seconda metà; difetto presente anche in Domain of evil, i cui primi minuti sono promettenti in virtù delle parti di chitarra a tratti piacevoli, ma anch’essa afflitta dal medesimo frustrante cambiamento nei tre interminabili minuti finali. Lo stesso discorso si potrebbe fare con la settima traccia, lenta solo nella prima metà ma dalla durata complessiva di soli tre minuti. A ciò bisogna poi naturalmente aggiungere i brani lenti dall’inizio alla fine, come la title-track (dalla durata di ben otto minuti, con qualche spunto interessante di chitarra verso i tre quarti), il terzo (inutile intermezzo strumentale, che si differenza dagli altri brani solo per l’esigua durata e l’assenza della voce), e l’ottavo, che chiude l’album in modo poco incisivo.
Il problema è soprattutto la batteria che, oltre ad essere male equalizzata, tiene lo stesso, fiacchissimo ritmo per tutte le parti lente, che occupano più di metà dell’album. I riff di chitarra, che si muovono spesso e volentieri su due o tre sole note, contribuiscono poi a far scemare inesorabilmente l’attenzione dell’ascoltatore, nonostante abbiano qualche guizzo davvero interessante di tanto in tanto. Il quadro è quindi a dir poco desolante: sfuggono a queste osservazioni il quinto brano (Past life in a dark realm), affascinante intermezzo atmosferico, e il sesto (Hunted night), la cui metà lenta, comunque caratterizzata dal ritmo standard della batteria, non risulta troppo tediosa in virtù dei pregevoli arpeggi di chitarra.
In conclusione, Nightcall Comes From The Forest non è da considerarsi un brutto album: è, semplicemente, molto monotono. Se le idee della band bastavano per un demo della durata di 20 minuti, così non si può dire per un album di quasi 45, che appare quindi come una versione diluita del primo. Certo, il quartetto crede profondamente in quello che fa, e ciò è fondamentale. Dovrebbe però trovare qualche nuova idea (concedendo ad esempio più spazio al sintetizzatore, che qui viene utilizzato poco ma bene) e imparare a gestire i cambi di ritmo evitando cali di tensione troppo bruschi. In tal modo i risultati positivi non dovrebbero tardare.
Francesco “Gabba” Gabaglio
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