Recensione: No Deal
Sono trascorsi ben sei anni dall’ultima uscita dei milanesi Planethard, hard rock band di belle speranze che aveva esordito nel corso del 2006 con “Crashed On Planet Hard”, album molto semplice e diretto che in tutta onestà, non era stato in grado di suscitare particolari entusiasmi o sensazioni differenti da una composta e moderata approvazione.
Un periodo, quello intercorso tra la pubblicazione dell’esordio e questo nuovo “No Deal”, passato a rincorrere le varie, differenti, aspirazioni dei componenti del gruppo, impegnati a vario titolo in altri progetti (solisti e non), all’interno dei quali raffinare doti ed esperienze utili nel formulare un concetto musicale più personale e – diciamolo sin da subito – convincente.
Poggiata sempre su solide basi hard rock, la nuova identità del gruppo lombardo ha, infatti, perso gran parte dell’attitudine smaccatamente retrò di radice glam anni ottanta degli esordi, per ricostruirsi un look tutto nuovo, più moderno, robusto e performante.
Il sound così costituito, si mostra pertanto contemporaneo ed attualissimo, compatto nella produzione dei suoni ed un po’ più spinto verso versanti metal, alla ricerca di un ipotetico punto di contatto tra i classicismi del debutto ed alcune derive stilistiche di origine “alternative”, vicine, per essere chiari, alla solidità di band quali Creed ed Alter Bridge. O per restare in tema di evoluzioni sonore, affini alle sfumature acquisite nella recente produzione da Sebastian Bach.
Probabilmente determinanti in tal senso, si sono rivelate le sperimentazioni soliste dell’ottimo chitarrista Marco D’Andrea, eccellente guitar player che proprio durante lo scorso anno ha più volte condiviso la scena con Marc Tremonti, chitarrista e uomo simbolo, guarda caso, proprio degli Alter Bridge.
La sostanza in ogni modo, ci porta in dote un album di buona fattura che spicca per una certa “cattiveria” di fondo ed un taglio melodico sempre determinante ma tutt’altro che melenso o troppo zuccheroso.
Quando parlano di Hard Rock insomma, i Planethard paiono fare davvero sul serio.
Le ritmiche serrate e, più in generale, la ricetta compositiva di una coppia di brani come le iniziali “Ride Away” e “This World” testimoniano in modo esplicito quella che è l’anima nuova – o meglio, “moderna” – del quartetto: occhio sempre di riguardo per le armonie con ritornello iper-orecchiabile, annegate in un rifferama corposo e dai toni ribassati, in cui il cantato impetuoso di Marco Sivo declama testi dal sapore talvolta rabbioso e ben lontano dalle ingenuità edulcorate degli esordi.
C’è molta più grinta e voglia di osare, supportate da un songwriting che pare, in effetti, aver compiuto notevoli passi avanti in termini di maturazione. Molte pertanto, le idee interessanti messe in cantiere nel corso dell’album, in una serie di brani spesso piacevoli e con alcuni elementi di spicco in grado di farli risaltare in qualche modo.
È il caso senza dubbio delle durissime “Nothing For Free” e “Abuse” (eseguita in compagnia della vocalist Masha Mysmane degli Exilia) pezzi in cui la contemporaneità dei suoni cari al modern-hard rock ben si mescola con un approccio ai limiti del rombante heavy-thrash, o della più classica “Mass Extermination”, episodio dal testo duro come un pugno nello stomaco che ha nell’irruenza della chitarra di D’Andrea uno dei punti cardine di maggior valore.
Un pelo più rilassate appaiono invece “Empty Book Of Friends” e “Until Tomorrow Comes”, momenti in cui emergono – pur se filtrati da una produzione massiccia e da suoni decisamente vigorosi – brevi elementi di radice ottantiana, soprattutto nei cori aperti, e nelle atmosfere meno plumbee rispetto a quanto ascoltato nel resto del disco.
Unica concessione alla pura melodia è la morbidissima “To Tame Myself”, traccia onirica e lieve che come un raggio di sole improvviso, squarcia il cielo grigio e caliginoso di un giorno d’autunno, definendo uno dei pezzi migliori dell’intero cd.
Eseguito ottimamente da quelli che, ormai, sono divenuti esperti professionisti della scena, “No Deal” è dunque un decisissimo passo in avanti rispetto all’altalenante debutto di molti anni fa.
Individualità notevoli, suoni ben studiati (il solito Ale Del Vecchio ha messo le manacce anche qui!) ed un songwriting finalmente proficuo e maturo, delineano i contorni di un album crudo, a tratti cupo e coriaceo ma, parimenti, piacevole e di facile ascolto, che di certo piacerà parecchio agli amanti delle sonorità più modern e contemporanee presenti nella odierna scena hard rock.
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