Recensione: No Fuel Left For The Pilgrims
I D-A-D sono una band danese, nata nei primi anni ’80 grazie a tre giovani musicisti (Stig Pedersen, Jesper Binzer e Peter Lundholm Jensen, di estrazione Punk, che diedero al gruppo il nome Disneyland After Dark, poi diventato D.A.D. a causa di contrasti con la Disney stessa), che ha realizzato il suo primo album nel 1985, sopravvivendo poi alla scena musicale sino ai giorni nostri.
D-A-D in realtà è un nome internet-friendly, dato che gli appellativi precedenti – ove il trattino era sostituito o da un punto, o da una stella (vedi cover) o da due punti – mal si conciliava con le moderne necessità della rete.
La formazione che, nel 1989, ha dato alle stampe “No Fuel Left For The Pilgrims”, è composta dai già citati Jesper Binzer al microfono ed alla chitarra ritmica, Stig Pedersen al basso e Peter Lundholm Jensen alla batteria, i quali, coadiuvati da Jacob A. Binzer alla chitarra solista, hanno anche co-prodotto l’album stesso.
Il platter è un classico esempio di Hard Rock melodico, tuttavia presenta la peculiarità – strana, se vogliamo, data la provenienza geografica del gruppo – di avere un groove tipico del Southern Rock americano, che caratterizza in maniera assai originale l’intero disco.
L’album parte subito con il ritmo sostenuto di Sleeping My Day Away, canzone cadenzata, vagamente struggente grazie alla languida e costante sottolineatura dell’uso della chitarra slide, che genera il tono glissato tipico del Blues o del Southern Rock, appunto, dal refrain melodico, dalle caratteristiche emotive sopra descritte.
Successivamente, Jihad introduce in scaletta il più classico dei ritmi Hard: cambi di tonalità molto indovinati nel rendere la canzone varia ed orecchiabile, con chorus graffiante grazie alla voce leggermente roca di Jesper Binzer.
Ecco quindi il turno di Point Of View, brano in cui è possibile percepire echi di Stoner Rock, nelle parti di chitarra sia normali che slide, in grado di regalare all’ascoltatore la sensazione di camminare in qualche landa desolata del Texas, accompagnato dal morbido refrain e dagli intensi assoli della chitarra solista.
Si passa quindi a Rim Of Hell, dove, nuovamente, si avvertono all’inizio del brano i riffs pesanti e cadenzati tipici dello Stoner. Il pezzo prosegue lentamente con strofe ben interpretate dalla voce del cantante, per culminare in un ritornello, costruito sui backing vocals, che sale di tono ed intensità.
Con la quinta canzone, ZCMI, il ritmo si alza improvvisamente, e il platter prende quota, impedendo all’ascoltatore di poter star fermo grazie al piglio davvero coinvolgente dell’intera band.
Riff incalzanti, sezione ritmica potenziata in primo piano, vocals urlate, cambio di tonalità, conducono verso lo stupendo, corale, refrain, molto melodico e dinamico.
Con il sesto episodio, True Believer, il ritmo non cala, aiutato in ciò da una sezione ritmica frizzante e da un giro di chitarra sempre continuo e presente. Melodico e di facile memorizzazione, come spesso accade nelle canzoni del platter, il ritornello.
Il tiro non cala neppure nella successiva Girl Nation, dall’inizio molto caldo e pieno per via dell’uso del glissato e di parti basso profonde e continue. Coerente con il resto dell’album il ritornello, ormai reso tipico dalla calda e roca voce Jesper Binzer e dai cori di accompagnamento.
Con Lord Of the Atlas ci si ritrova nel più classico Hard Rock melodico, dall’incedere tuttavia sostenuto e dal chorus in linea con quelli delle altre canzoni.
Overmuch presenta poi l’Hard più ortodosso ed antico, nella sua accezione più vera, caratterizzato da un refrain atipico nella melodia dal tono quasi irriverente, ma comunque orecchiabile e godibile. Ben strutturato e melodico l’assolo di chitarra
La successiva Siamese Twin, dal ritmo incalzante, possente, e dalla struttura essenziale, presenta una forma alquanto tradizionalista, senza cioè quei tipici richiami al Southern o allo Stoner così tanto presenti e diffusi lungo l’intera scaletta.
In Wild Talk è ancora preponderante l’aspetto puramente Hard Rock, con il cantante che fornisce, nell’interpretazione della strofa, una originale parte più parlata che cantata; molto particolare il ritornello, poco melodico ma pur tuttavia ben memorizzabile, in quanto efficacemente costruito.
L’ultima canzone, Ill Will, lascia infine intravedere quella che sarà, nel futuro, la direzione intrapresa dall’act scandinavo: abbandono delle classiche, dolci sonorità americaneggianti, deciso indurimento del suono complessivo ed in particolare di quello delle chitarre – a tratti addirittura di matrice Thrash – scarsa melodia del ritornello, con cori di accompagnamento più urlati che cantati, e ritmica a tratti affine allo Speed Metal.
Forse, un ritorno inconscio alle origini Punk (completamente assente in questo album), sempre restando entro i confini dell’Universo Metal.
In conclusione, un album atipico per quanto riguarda il rapporto “nazionalità del gruppo” / “groove musicale”, per quanto spiegato ad inizio recensione.
Ma proprio con tale caratteristica si definisce la peculiarità del platter, che ha un’atmosfera polverosa, calda, desertica, segnata da immaginarie bevute di Whisky e successive scorribande motorizzate nelle desolate, soleggiate lande del Texas, accompagnati dalle canzoni varie, orecchiabili, veloci e coinvolgenti dell’album stesso, tutte caratterizzate da una fine ricercatezza, nel songwriting, per regalare, all’ascoltatore, le sensazioni, emozioni ed immagini mentali sopra descritte.
Daniele “dani66” D’Adamo
Tracklist :
1 – Sleeping My Day Away
2 – Jihad
3 – Point Of View
4 – Rim Of Hell
5 – ZCMI
6 – True Believers
7 – Girl Nation
8 – Lords Of The Atlas
9 – Overmuch
10 – Siamese Twin
11 – Wild Talk
12 – Ill Will