Recensione: No Safe Haven
Due fatti hanno segnato profondamente la storia degli iberici Aposento. Il primo, lo scioglimento nel 1997 dopo sette anni di attività, con successiva riunione nel 2013. Grazie alla quale, finalmente, hanno potuto realizzare il tanto sospirato debut-album omonimo (2014).
La seconda, il COVID-19, che ha segnato la fine delle operazioni per quattro anni. Con che, alla ripresa, con questo nuovo nonché quarto disco in carriera “No Safe Haven“, la formazione è stata totalmente rimaneggiata dal chitarrista, Manolo Sáez, accompagnato, ora, da quattro compagni che non sono più quelli di “Conjuring the New Apocalypse” (2020).
Il cambiamenti di tutti i membri, tranne uno, è un shock notevole, per l’equilibrio tecnico/artistico dei una formazione che, prima del fatto, era ben rodata. Significa ricominciare da zero, con tutte le incognite che ne derivano.
Lasciando scorrere via il passato, è il momento di riferirsi al presente. Presente che propone, per “No Safe Haven“, un sound agganciato ai dettami del death metal moderno. Sound che, fra sperimentazioni varie, evoluzioni e progressione, si trova in giro piuttosto raramente (per esempio Vader). L’ormai classico death metal e basta, insomma.
Sáez e compagni, quindi, per prima cosa hanno badato alla sezione deputata all’erogazione della potenza. Con un buon risultato, e cioè un sound possente, massiccio ma anche pulito, chiaro e lineare. La produzione, buona anch’essa, consente di percepire perfettamente ogni nota del disco e tutto ciò che riguarda l’esecuzione degli strumenti, voce compresa.
Fra essi, spicca il settore di spinta. Fattispecie non proprio comune in ambito estremo, si può udire in tutti i suoi passaggi il basso di Pablo Vazquez, le cui scorribande sulle sue linee lo rendono consistente, spesso, dinamico. Raúl Ceballos, da par suo, si dimostra un batterista di alto livello, sciorinando pattern piuttosto complicati, leggibili con difficoltà, potendo osservare da vicino il ricorso – esagerato, a parere di chi scrive – ai blast-beats. Così facendo, viene un po’ a mancare di scioltezza e fluidità, dando di conseguenza l’idea di un qualcosa di sempre simile a se stesso.
E Manolo Sáez? Per quanto lo riguarda il discorso suddetto si può applicare anche al riffing. Irreprensibilmente rifinito dalla compressione della tecnica del palm-muting, con relativi passaggi eminentemente thrashy, ma troppo accademico e privo di spunti interessanti, benché sia eseguito senza alcun difetto. Assieme a Manu Reyes viene eretto il classico muro di suono, che tuttavia, in alcuni momenti – rari, a onore di cronaca – , manca di profondità e invalicabilità.
Carlos Garcia, da il là al più classico dei growling, di quello, cioè, non troppo aggressivo quanto piuttosto stentoreo e piacevolmente intelligibile. Un condottiero che in ogni caso non riesce, neppure lui, a donare al disco il famigerato quid in più. Sì, perché, alla fine dei conti, “No Safe Haven” è un’opera tecnicamente eseguita senza neppure una pecca. Ma, anche, troppo scolastica e quindi scontata.
I singoli brani sono adesi senza distacchi allo stile del combo spagnolo, il che è una cosa buona e giusta. Stile neppure scarso, anzi, abbastanza riconoscibile nella marea di proposte similari. Nonostante questa qualità, il songwring è sì da enciclopedia, ma privo di qualsiasi impennata, di qualche ritornello da mandare a memoria, di qualche passaggio che resti vivo nel pensiero.
Niente.
Alla fine sorge il dubbio che “No Safe Haven” sia un full-length nato da clausole contrattuali e non dal cuore.
Daniele “dani66” D’Adamo